domenica 19 luglio 2009

Occidentalismo. L'Occidente agli occhi dei suoi nemici

Titolo Occidentalismo. L'Occidente agli occhi dei suoi nemici
Autore Buruma Ian; Margalit Avishai
Prezzo
Sconto 25% € 8,62
(Prezzo di copertina € 11,50 Risparmio € 2,88)
Prezzi in altre valute
Dati 2004, 163 p., brossura
Traduttore Nadotti A.
Editore Einaudi (collana Einaudi. Stile libero big)

La recensione de L'Indice
Recensione de L'indice

Occidentalismo non è una parola nuova. Si sarebbe piuttosto tentati di dire, un po' demodé. Essa evoca scenari assai lontani dalla contemporaneità: il dibattito russo che ha visto affrontarsi, a partire dall'Ottocento, sostenitori del sogno di Pietro il Grande di aprire con San Pietroburgo una finestra sull'Europa e slavofili, oppure, nella visione bipolare della guerra fredda, il blocco che vedeva nell'Europa dell'Est egemonizzata dall'Urss una minaccia per l'intera umanità. In ogni caso, una tendenza culturale che, coniugata in contesti differenti, assegna un ruolo preminente all'Occidente nello sviluppo della civiltà.

Fin dalle prime pagine del libro di Iain Buruna e Avishai Margalit, si rimane quindi un po' disorientati nel vedere riproposta questa categoria in una versione completamente mutata di segno. Facendo tabula rasa dei precedenti significati, secondo i due autori, l'occidentalismo coinciderebbe con "il quadro disumanizzato dell'Occidente che tratteggiano i suoi nemici". Nello scenario della guerra santa dichiarata dal fondamentalismo islamico con l'attacco alle torri gemelle, in cui gli autori collocano esplicitamente la loro analisi, l'antiamericanismo si presenta come una forma estrema di occidentalismo. Un fenomeno che si nutre di un vocabolario di cui fanno parte l'odio per la nuova Babilonia e la sua civiltà fredda e meccanica, il culto della morte opposto all'antieroismo borghese e liberale, la redenzione spirituale e religiosa contrapposta al vuoto razionalismo occidentale e all'idolatria per il denaro. Questa "miscela tossica", che capovolge la visione orientalista riducendo l'Occidente a una società barbara e idolatra, non è tuttavia semplicemente una "malattia mediorientale". Al contrario i suoi ingredienti vengono rintracciati in una molteplicità di contesti storici e aree geografiche che spaziano dal Giappone della scuola buddista-hegeliana di Kyoto alla Cina di Mao Zedong, passando per lo slavofilismo dei russi Ivan Kireevskji e Aleksej Chomjakov e l'Iran di Sayyid Mahmud Taleqani, per citarne solo alcuni tra i tanti. Il tratto comune che essi condividono è un'ostilità verso l'Occidente nutrita dalla scommessa di potersi appropriare del bagaglio tecnologico della modernità europea, respingendone i contenuti ideologici potenzialmente minacciosi per le identità culturali non occidentali.

Il pamphlet di Buruma e Margalit va tuttavia ben oltre la semplice ricognizione dei nessi tra le forme culturali di occidentalismo e lo scenario contemporaneo post 11 settembre. Prendendo fermamente le distanze dall'interpretazione del conflitto in corso come scontro di civiltà, secondi i due autori l'occidentalismo non può essere considerato semplicemente come una costruzione esterna all'Occidente prodotta dall'odio identitario dei suoi nemici. Al contrario, l'ipotesi centrale è che le sue radici alberghino solidamente all'interno del mondo occidentale: "È nostra convinzione − scrivono gli autori − che l'occidentalismo, come il capitalismo, il marxismo e molti altri 'ismi', siano nati in Europa prima di essere esportati in altre aree del mondo". A suffragare questa tesi vengono ripercorsi i legami tra la critica marxiana all'idolatria delle merci e i pionieri dell'islam rivoluzionario, così come l'influenza di Jünger sui circoli musulmani degli anni sessanta. Infine, partendo dalla constatazione che "il vocabolario occidentalista di parole buone e cattive è sostanzialmente identico a quello romantico", vengono arruolati nelle file dell'occidentalismo Schelling e Dostoevskij, così come buona parte del romanticismo tedesco e russo. Un filo che, sul piano più strettamente politico, porta da Hitler e Stalin direttamente a Osama bin Laden passando per Pol Pot e Ho Chi Min.

Buruma e Margalit disegnano una storia dell'occidentalismo intesa come una serie di contaminazioni incrociate, di malintese idee europee e di diffusione di idee sbagliate. Un'analisi che presuppone una storia delle idee intesa come enumerazione di entità astratte che si autoriproducono lungo linee di continuità. È estranea agli autori, infatti, un'analisi convincente delle relazioni sistemiche tra Occidente e non-Occidente, delle relazioni di potere, in altre parole, attraverso cui queste idee si sono dispiegate storicamente. Una faccenda liquidata in poche battute. Ricordando che talvolta l'antiamericanismo è conseguenza di specifiche politiche nordamericane come il sostegno alle dittature anticomuniste, alle imprese multinazionali e al Fondo monetario internazionale, gli autori chiosano: "L'antagonismo di alcuni paesi verso gli Stati Uniti è dovuto semplicemente alla loro potenza. Altri paesi, che godono dell'aiuto e della protezione del governo degli Stati Uniti, hanno nei suoi confronti il risentimento che si ha verso un padre iperprotettivo. Altri ancora odiano gli Stati Uniti perché invece di aiutarli voltano loro le spalle. Ma in molti casi non sono in questione le cose che il governo americano fa o non fa".

Se sul piano dell'analisi culturale, come giustamente sostengono gli autori nelle pagine finali del libro, non si tratta di discutere di strategie militari o di politica internazionale, ma "la questione è cosa pensare, come porre il problema", allora è difficile sottrarsi all'impressione che la risposta di Buruma e Margalit non ci faccia fare un gran passo in avanti. Anzi. La cornice in cui disegnano una possibile alternativa allo scontro di civiltà che viene dai neocons come dal fondamentalismo islamico è assai nota. Essa ristabilisce l'Occidente come unico soggetto della storia e condanna il resto del mondo a una perenne brutta copia della modernità occidentale. Le torri di vetro e di acciaio di Singapore e Kuala Lampur in questa prospettiva non sarebbero altro che il sintomo del desiderio di sconfiggere "l'Occidente creando copie grottesche della civiltà che vogliono sorpassare". L'altro, quando non risponde docilmente all'ingiunzione mimetica che gli viene rivolta, o è rigettato in un'alterità immaginata come luogo di regressione o, nel migliore dei casi, è rappresentato come un altrove stereotipato da dove non può venire niente di nuovo.

Tuttavia, se l'intenzione dichiarata degli autori è quella di difendere l'Occidente dall'odio dei suoi nemici cercando di comprenderne le cause e le ragioni, rimane piuttosto oscuro in che cosa vada identificato l'Occidente stesso. Alcuni passaggi sembrano farlo coincidere con gli Stati Uniti, in altri prevale l'associazione con il capitalismo avanzato e le democrazie liberali, un club ristretto ma universalistico a cui possono essere ammesse anche "alcune fragili democrazie asiatiche come Indonesia e Filippine". Sul piano storico, risulta infine particolarmente problematica l'esclusione dal consesso occidentale non solo della Russia, ma anche del nazismo e del fascismo, figli entrambi del romanticismo.

Rimane alla fine il dubbio che l'immagine dell'Occidente che hanno in mente gli autori sia di natura altrettanto fantasmatica di quella attribuita agli occidentalisti. Un nocciolo puro e trasparente la cui esperienza storica appare svuotata dalla dialettica dell'Illuminismo di francofortiana memoria, rischiando di riabilitare vecchie teorie autoassolutorie. Può, insomma, il tentativo di comprendere la sfida aggressiva che viene dai movimenti fondamentalisti rimanere imbrigliato nello specchio che gli viene restituito? Una risposta diversa e più convincente è offerta dai contributi raccolti nell'ultimo numero della rivista "Parolechiave" (???anno, n.), dove sotto il titolo di "occidentalismi" vengono riletti una pluralità di processi riconducibili alla deterritorializzazione della modernità occidentale operata dall'imperialismo europeo. Una prospettiva che, accogliendo la sfida del pensiero postcoloniale, privilegia la presa d'atto che i linguaggi, le tecniche e le istituzioni dell'Occidente non siano più di sua proprietà, ma, abitati da altri e altre, vengano utilizzati per poter raccontare storie e modi diversi di stare nel mondo. "Spezzare il circolo vizioso in cui il soggetto si vede specchiato in ogni angolo del mondo − ricorda Iain Chambers − significa registrare quello che resta sconosciuto a noi stessi".

Se la cornice teorica del pamphlet di Buruma e Margalit risulta poco convincente più chiare sono invece le implicazioni e i potenziali usi politici. Tra questi va sottolineato non solo il rischio di derubricare qualsiasi critica all'Occidente e alla modernizzazione sotto la voce di un pericoloso e irrazionale odio, ma anche un bersaglio interno alla stessa scena culturale contemporanea. Il ribaltamento del significato attribuito alla categoria di occidentalismo risulterebbe infatti difficilmente comprensibile, o perlomeno arbitrario, se non si proponesse esplicitamente come una versione rovesciata dell'orientalismo, confessando così il proprio debito con il lavoro di Edward Said. Benché infatti, come ricorda opportunamente Adriano Sofri nella postfazione, gli autori mutuino la categoria di occidentalismo dal suo libro più famoso, Orientalismo, il nome del critico palestinese si aggira tra le pagine del libro come uno spettro mai nominato. La minaccia di un pensiero critico a cui gli autori imputano, non troppo velatamente, una condiscendenza verso la barbarie dei dittatori non occidentali, esito e sintomo della paralisi indotta dal senso di colpa coloniale. Una chiusura del cerchio che appare come una scorciatoia indebita e inaccettabile rispetto a un lavoro culturale di decolonizzazione della "ragione europea" che rimane, specie in Italia, ancora da fare.

http://www.ibs.it/code/9788806171988/buruma-ian-margalit-avishai/occidentalismo-l-occidente-agli-occhi.html

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