mercoledì 22 luglio 2009

Autori da indagare

Ashis Nandy
http://en.wikipedia.org/wiki/Ashis_Nandy

Gyan Prakash
http://en.wikipedia.org/wiki/Gyan_Prakash

Ranajit Guha
http://en.wikipedia.org/wiki/Ranajit_Guha

Ammiel Alcalay
http://en.wikipedia.org/wiki/Ammiel_Alcalay

Paul Gilroy
http://en.wikipedia.org/wiki/Paul_Gilroy

Moira Ferguson

Anwar Abdel Malek
http://www.postcolonialweb.org/poldiscourse/said/orient9.html

Samir Amin
http://en.wikipedia.org/wiki/Samir_Amin

C. L. R. James
http://en.wikipedia.org/wiki/C._L._R._James

Cedric Robinson
http://en.wikipedia.org/wiki/Cedric_Robinson

Ella Shohat
http://en.wikipedia.org/wiki/Ella_Shohat

Hobsbawm - L' invenzione della tradizione

Titolo L' invenzione della tradizione
Prezzo € 20,00
Prezzi in altre valute
Dati 2002, VIII-295 p.
Curatore Hobsbawm E. J.; Ranger T.
Traduttore Basaglia E.
Editore Einaudi (collana Piccola biblioteca Einaudi. Nuova serie)

In sintesi
Da non confondere con la "consuetudine", cioè con i vecchi modi di agire o di comunicare ancora vitali, le "tradizioni inventate" sono l'insieme di pratiche che si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è implicita la continuità con il passato. Ogni società ha accumulato una riserva di materiali in apparenza antichi: per rinsaldare vincoli nazionali, per connotare la fisionomia di partiti e classi sociali. Questa sorta di ingegneria sociale e culturale ha caratterizzato l'affermarsi delle nazioni moderne, che hanno cercato di legittimare la loro storia più recente cercando radici nel passato più remoto.

http://www.ibs.it/code/9788806162450/zzz1k1456/invenzione-della-tradizione.html

Sito su Said

http://www.postcolonialweb.org/poldiscourse/said/saidov.html

martedì 21 luglio 2009

RIEPILOGO LIBRI

IAIN CHAMBERS
- Esercizi di potere. Gramsci, Said e il postcoloniale (Meltemi)
- Sulla soglia del mondo (Meltemi)

BHABHA
- Nazione e narrazione [a cura di...] (Meltemi)
- I luoghi della cultura (Meltemi)

MIGUEL MELLINO
- Post-orientalismo. Said e gli studi postcoloniali [a cura di...] (Meltemi)
- La critica postcoloniale (Meltemi)
- La cultura e il potere (Con Stuart Hall) (Meltemi)

GIORGIO BARATTA
- Antonio Gramsci in contrappunto (carocci)

CARLA PASQUINELLI
- Occidentalismi (Carocci)

IRWIN ROBERT
- Titolo Lumi dall'Oriente. L'orientalismo e i suoi nemici (Donzelli)

IAN BURUMA - MARGALIT AVISHAI
- Occidentalismo. L'Occidente agli occhi dei suoi nemici (Einaudi)

ROBERTO GRITTI
- Oltre l'orientalismo e l'occidentalismo (Guerini e associati, prossima uscita)



STUDI POST COLONIALI

SPIVAK
- Critica della ragione postcoloniale
- Morte di una disciplina
- Subaltern studies. Modernità e (post)colonialismo (Ombre Corte)

ACHILLE MBEMBE
- Postcolonialismo (Meltemi)

ARJUN APPADURAI
- Modernità in polvere (Meltemi)
- Sicuri da morire (Meltemi)

ROBERT YOUNG
- Introduzione al postcolonialismo (Meltemi)
- Mitologie bianche (Meltemi)

ANIA LOOMBA
- Colonialismo/postcolonialismo


BIBLIOGRAFIA EDWARD SAID

- Orientalismo
- Cultura e imperialismo
- Nel segno dell'esilio
- Sempre nel posto sbagliato. Autobiografia
- Umanesimo e critica democratica
- Dire la verità. Gli intellettuali e il potere
- Joseph Conrad e la finzione autobiografica
- Mio diritto al ritorno

- Paralleli e paradossi (con Barenboim Daniel) (Il Saggiatore)
- La pace possibile (Il Saggiatore)
- La convivenza necessaria (Internazionale)
- La questione palestinese (Gamberetti)
- Tra guerra e pace (Feltrinelli)

Miguel Mellino: Recensioni

Post-orientalismo a cura di Miguel Mellino

La visione occidentale dell’Oriente
Manlio Masucci

Occidente e Oriente: un rapporto spesso difficile e controverso che ha portato, in molti casi, a incomprensioni e mistificazioni, spesso sfociate in violenti conflitti. Ma Occidente e Oriente sono veramente così lontani, così differenti, così inconciliabili? Un dibattito accademico e politico fra i più classici che riscopre, oggi più che mai, in tempi di globalizzazione, una sua pregnante attualità. Per cercare di comprendere al meglio dinamiche particolarmente delicate e tortuose è necessario partire proprio dalle modalità attraverso le quali l'Occidente rappresenta se stesso e si rapporta "all'altro orientale". L'approfondimento del concetto di Occidente non può che avvenire, date queste premesse, proprio attraverso lo studio di quell'immagine che ha rappresentato per secoli, e in molti casi continua a rappresentare, il suo opposto ideale: l'Oriente.

L'Oriente diviene allora la cartina di tornasole, quel particolare disegno forgiato dall'Occidente a suo uso e consumo, che ci permette di delineare al meglio le paure e le inquietudini, ma anche gli aneliti e le speranze, degli occidentali. Tutto ciò che ha contribuito a creare l'immagine e l'immaginario di un mitico Oriente, va sotto il nome di orientalismo, oggetto di studio, in particolare, di Edward Said, uno dei maggiori intellettuali dell'ultimo secolo, di cui la Meltemi ripropone oggi un volume composto da una serie di saggi, accompagnati da interventi di altri cultori degli studi postcoloniali. Oggetto dell'analisi è quello che si potrebbe definire, citando Miguel Mellino, curatore del volume, "l'inconscio strutturale dell'Occidente". Un inconscio da scandagliare per comprendere al meglio il significato delle azioni di quella che è considerata una vera "macchina identitaria" capace di produrre, storicamente, meccanismi di dominazione e segregazione. L'orientalismo diviene allora una vera e propria patologia congenita che offusca la capacità degli occidentali di porsi di fronte agli orientali senza un bagaglio di pregiudizi più o meno consci.

"L'orientalismo - spiega Said – fondava la propria esistenza non sull'apertura e sulla ricettività nei confronti del mondo orientale, ma sulla propria interna e ripetitiva coerenza, legata a sua volta alla volontà di dominio sull'Oriente, che ne era componente costitutiva". Insomma l'Occidente costruisce la propria identità anche attraverso la costituzione di un "altro", opposto a quel sé stesso che si vuole edificare come modello insuperabile di civiltà. Un passaggio essenziale, secondo Said, per qualsiasi forma di vita "poiché, si dà il caso, che nessuna identità potrà mai esistere per se stessa e senza una serie di opposti".

L'orientalismo riguarda, allora, principalmente lo sdoppiamento interno dello stesso Occidente: "Un soggetto autoreferenziale, narcisista e paranoico, claustrofobico, incapace di aprirsi all'altro, di incontrarlo, di comprenderlo se non in funzione di sé medesimo", come spiega ancora Mellino.
Attraverso i saggi di Said e quelli di autori come Lata Mani, Ruth Frankenberg, Gyan Prakash e Aijaz Ahmad, che ne criticano le posizioni, si ha la possibilità di entrare all'interno di un dibattito epocale che delinea, a suo modo, il passato e il futuro delle nostre relazioni con il mondo orientale. Individuare i limiti delle rappresentazioni occidentali può risultare un'importante operazione conoscitiva anche se le soluzioni alle problematiche non sono di facile individuazione. Il concetto del "contrappunto" espresso da Said, potrebbe però rappresentare un primo tentativo di emancipazione dai pregiudizi che attanagliano la nostra società: permettere il librarsi di più voci che concorrano a una nuova e migliore armonia fra Oriente e Occidente.

Testata: Conquiste del Lavoro
Data: 30/05/2009

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Ma Said ci ha liberato dall’eurocentrismo
Giorgio Baratta
Si è aperto un dibattito sul lascito teorico del famoso autore di Orientalismo. Ne dà conto un libro a più voci uscito di recente e curato da Miguel Mellino, il più radicale dei critici “da sinistra” dell’intellettuale palestinese. Secondo le accuse Said era prigioniero dell’occidentalismo e credeva ancora nel ruolo emancipatorio dell’umanesimo cosmopolita dell’Europa

Un comunista storico, noto studioso de Il primo Hegel (Firenze 1953), oggi dimenticato - Carmelo Lacorte - diceva che merito principale del filosofo di Stoccarda è di aver traghettato nel linguaggio dialettico (espressione dello spirito di contraddizione dei tempi rivoluzionari) la sfida empirica o empiristica opposta da Hume alle grandi narrazioni metafisicoreligiose, come quella di Kant e di tanti che son venuti prima e dopo di lui. Tutti sappiamo, ben lo sapeva Lacorte, che proprio Hegel ha formulato con il suo Sistema una Grande Narrazione che ingloba o incorpora nel Centro Euro-Occidentale tutte le culture e civiltà del mondo. E tuttavia non è pensabile Marx, non lo è Lenin, non lo è Gramsci, senza l’empirismo dialettico hegeliano, che ha reso possibile ragionare analiticamente sulla storia e la società, e quindi sul capitalismo e l’imperialismo, alla luce della lotta e del conflitto.

In questa discrepanza tra sistema e metodo, tra teoria e (diceva Althusser) pratica teorica, sta il rovello sul quale prima Marx e poi Gramsci hanno costruito, ognuno dei due a suo modo, anche se con molti punti di connessione, il rovesciamento della dialettica hegeliana e il superamento storico-materialistico dell’idealismo eurocentrico. Un leit-motiv dei recenti studi postcoloniali è di aver riproposto in una direzione planetaria, diversa dal postmodernismo (che è in fin dei conti tutto interno alla tradizione occidentale), la critica delle Grandi Narrazioni e di ogni tipo di “essenzialismo”. Miguel Mellino, curatore della miscellanea assai preziosa di testi di Said e su Said contenuti nel recente volume Postorientalismo. Said e gli studi postcoloniali (Meltemi, Roma 2009, pp. 299, euro 25), ma soprattutto autore della magistrale Introduzione a tutto il volume, assume sino in fondo un tale atteggiamento critico, che lo spinge a sottolineare e discutere con rigore appassionato quelle che egli chiama le “ambivalenze politiche” ma anche “teoriche” di Said.

Perché abbiamo tirato in ballo Hegel? Perché è l’espressione compiuta e più organica, tuttora palpitante, di quella “ambivalenza strutturale” nella quale è coinvolto ogni tentativo di “voyage in” (per riprendere un’espressione di Said sottolineata da Mellino), che pensi ancora all’Europa per potersi avvicinare al mondo fuori dall’Europa: che è certamente una strada percorsa da Said.

Il libro curato da Mellino riguarda unicamente il saggio più noto di Said, Orientalismo, che concerne la costruzione pratico-teorica, cioè politica e istituzionale oltre che discorsiva e culturale, dell’Oriente da parte dell’Occidente, fin dai tempi della Grecia classica. Nella ricostruzione puntuale di questo discorso Mellino è, credo, il più radicale e conseguente dei critici da sinistra di Said, proprio perché riesce a dar conto e ragione sia delle acquisizioni più ricche e articolate di quello che egli chiama orientalismo “manifesto” (che coniuga cultura orientalista e pratica coloniale), sia del “pregiudizio” culturalista ed essenzialista che graverebbe invece sull’aspetto metafisicamente “latente” dell’orientalismo medesimo. Questa distinzione tra latente e manifesto è un punto di forza e insieme di debolezza secondo Mellino dell’analisi di Said, perché l’ipostasi di un orientalismo latente (sostanzialmente fuori del tempo) è tale, che impedirebbe a Said di ragionare adeguatamente in termini materiali, cioè storici ed economico-sociali, sulla vicenda coloniale nel suo insieme.

La situazione è complessa. L’analisi della “egemonia politica sul resto del mondo”, praticata dall’Europa, coinvolge secondo Said l’autocoscienza più intima e meno riconosciuta della cultura europea, ciò che strappa la concezione della “cultura” a ogni residua torre d’avorio e la riporta alle sue radici e dimensioni mondane, terrestri, materiali. “L’ambivalenza” di questa analisi, secondo Mellino, sta tuttavia nel fatto che Said si manterrebbe talmente aggrappato a questa dimensione culturale (che per quanto mondanizzata resta sovrastrutturale) fino a farne l’essenza stessa della dialettica Occidente-Oriente. Said resterebbe eccessivamente dentro il suo “voyage in”. Mellino ritiene che, in ultima analisi, egli non si sia mai liberato da un “paradossale eurocentrismo” od occidentalismo, che si evidenzierebbe in modo esemplare nell’ultimo libro, postumo ma da lui curato, Umanesimo e critica democratica (trad. ital., Milano 2007). Said pretendererbbe di allargare al mondo intero il senso più profondo e progettuale dell’“umanesimo cosmopolita” europeo, finalmente liberato da ogni pretesa egemonica.

Mellino ci fa rivivere lo scandalo che Orientalismo, pubblicato nel 1978, ha rappresentato e tuttora rappresenta per i tantissimi orientalisti, di alto come di medio e basso livello, che hanno opposto obiezioni a non finire, incapaci però di venire a capo di un fatto evidente e decisivo: quel libro ha determinato una svolta a diversi registri disciplinari e culturali, i cui segni e le cui tracce informano ancora oggi a livello internazionale il metodo di studio e di analisi. Anche la critica da sinistra, per quanto “estremistica” (e tuttavia rispettosa) come quella di Aijaz Ahmad, riprodotta in questo volume, solleva interrogativi inquietanti, che tuttavia non inficiano l’originalità e il carattere fondativo di quell’opera.

Credo varrebbe la pena approfondire il confronto tra le ambivalenze storiche della filosofia hegeliana e quelle attuali della critica saidiana, rispetto alle necessità teoriche e metodologiche di un punto di vista postcoloniale avanzato, che abbia fatto tesoro in senso anticulturalista della lezione gramsciana e saidiana. Mellino si muove nella prospettiva della “rivendicazione fondamentale dell’eterogeneità irriducibile dell’altro-postcoloniale e quindi della sua autonomia e resistenza costituente”.
Il termine che di questo passo desidero evidenziare è “autonomia”. Semplificando - così come faceva Gramsci quando presentava la dicotomia Sud-Nord come quella tra una immensa campagna e una enorme città - si potrebbe dire che l’Europa-Occidente è espressione del mondo egemonico, così come l’Oriente e Sud del mondo lo è del mondo subalterno. I subalterni non sono e non possono essere capaci di lotta egemonica, finché non diventano autonomi. Occorre “passare” attraverso l’autonomia, quale condizione-base di una “resistenza costituente” che si opponga all’incorporazione di qualità egemoniche acquisite per imitazione di coloro contro i quali si lotta (ciò che, come sappiamo, è abbondantemente avvenuto).

L’analisi che Said ha compiuto di Césaire, di C.L.R. James, di Fanon in Cultura e imperialismo, che è del 1993 (Mellino lo riconosce), è esemplare in questa direzione. Il “voyage in” Europa di Said – che non è certo europeo, ma un orientale “esiliato” in occidente - è diverso da quello hegeliano, perché il “fuori dall’Europa” entra qui con l’Europa in contrappunto (categoria saidiana fondamentale, che Mellino valorizza) in una modalità che richiede, come logica e come prospettiva, quella antihegeliana dell’autonomia reciproca: risultato di un processo, oggi in pieno corso, anche se contrastato a morte dai tanti fondamentalismi, conflitti di civiltà e violenze materiali, che rendono il mondo globale così minaccioso e nebuloso.

Ritengo che l’istanza del contrappunto sia in realtà opposta all’incorporazione dell’altro-da-sé - di origine hegeliana e goethiana, ma anche auerbachiana - in quel che Mellino chiama la riproposizione saidiana di una “Grande Storia Universale” o di un “Nuovo Grande Racconto dell’Uomo”. Qui dovrebbe aprirsi tutto un altro discorso, mentre il compito di questa nota è più limitato: quello di invitare calorosamente a leggere il libro di Mellino, che ci dà molte armi della critica anche per affrontare il contrappunto del mondo, proposto da Said.

Testata: Liberazione
Data: 01/05/2009

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Quello che si chiama critica postcoloniale
MAURO BUONOCORE
Le banlieues, con le loro rivolte e le macchine in fiamme, ci apparirebbero diverse se le guardassimo con gli occhi della critica postcoloniale, e cioè se capissimo che “la questione coloniale è una questione ancora irrisolta e terribilmente presente all’interno delle società multirazziali occidentali contemporanee, e anche se è in buona parte rimossa dai dibattiti quotidiani, ogni tanto torna a farsi sentire con forza”. Come ad esempio nelle rivolte delle banlieues.

Miguel Mellino, autore del libro La critica postcoloniale (Meltemi 2005), ci racconta di cosa parliamo quando diciamo studi postcoloniali, ci fa un ritratto di un ambito di ricerca che non si ferma a una sola disciplina, ma che attraversa sociologia e critica letteraria, antropologia e storia, e anzi fa della natura multidisciplinare un elemento fondante, caratteristico, sin dalle sue radici che affondano nel pensiero postmoderno, nei cultural studies, nei movimenti di decolonizzazione e nei subaltern studies indiani, fino a farsi chiave di lettura della modernità.

Cos’è la critica postcoloniale?
Nel senso in cui oggi lo intendiamo, i primi usi del termine postcoloniale appartengono alla critica letteraria, da qui vengono i padri fondatori del postcolonialismo come Edward Said, Homi K. Bhabha e Gayatri Chakravorty Spivak, e sempre alla critica letteraria appartiene un testo che può essere considerato tra i primi esempi di critica postcoloniale, “The Empire writes back” di Bill Ashcroft, Helen Tiffin e Gareth Griffiths. Più eclettico invece il background di un altro dei testi fondativi di questo campo di studi come “White Mythologies. Writing History and the West” di Robert Young. Da qui poi la critica postcoloniale si è estesa a un ambito multidisciplinare che riguarda la sociologia e l’antropologia, l’etnologia e la storia, e tutta una serie di discipline o di approcci alla realtà che contenevano già in sé una critica radicale dell’eurocentrismo o del soggetto eurocentrico. In altre parole, i postcolonial studies hanno riesumato – disseppellito potremmo dire con Benjamin – il colonialismo in quanto fenomeno chiave del presente, mettendo in evidenza, da una parte, che il dispiegamento della modernità di cui tutti noi siamo figli non può essere compreso senza riflettere e analizzare il colonialismo e, dall’altra, che lo sviluppo delle scienze sociali, delle discipline letterarie e umanistiche, ma anche della cultura in generale non può essere compreso senza una considerazione delle dinamiche coloniali, del rapporto con l’altro e del dominio dell’altro non-occidentale, oggi come ieri. E’ questa, ad esempio, una delle principali chiavi di lettura di “Cultura e imperialismo” di Said: non si può pensare la cultura moderna (e contemporanea) senza l’imperialismo e, viceversa, non si può pensare l’imperialismo senza la cultura moderna. Cultura e imperialismo, dunque, sono due fenomeni ampiamente intrecciati. In definitiva, si può dire che il postcolonialismo abbia reintrodotto un approccio alla storia in quanto storia globale e non solo dell’Europa o delle classi dominanti: un decentramento che in parte aveva già compiuto il marxismo, anche se molto spesso questo debito, all’interno degli studi postcoloniali, non viene quasi mai riconosciuto.

Si tratta quindi di spostare lo sguardo: non fermare gli occhi solo sui protagonisti europei (o occidentali) della storia, ma guardare anche ai dominati, assumendo così il punto di vista della molteplicità.
Uno degli obiettivi degli studi postcoloniali è precisamente quello di riproporre la molteplicità al posto dell’unicità; e dove quest’ultima viene intesa (come nel pensiero borghese moderno) come dispiegamento della ragione o della filosofia della storia occidentale, la proposta della molteplicità assume una valenza politica. In un certo senso, la sensibilità per l’altro, il tentativo di ridare voce ai subalterni, ai perdenti della storia – per dirla ancora con Benjamin – costituisce uno dei punti centrali di quello che possiamo chiamare la politica dei postcolonial studies. Bisogna dire però che la realizzazione di questo programma è più complicata di quanto appaia a prima vista e che negli studi postcoloniali esistono diverse interpretazioni su come possa avvenire questo recupero dell’altro, su come si “debba passare a contropelo la storia”. Gayatri Spivak, ad esempio, afferma che nei documenti, nei testi o negli archivi storici è impossibile trovare le “tracce” del subalterno, che proprio in quanto “altro” e “subalterno” è rimasto un (s)oggetto silenzioso. E la ragione di questo silenzio non sta nel fatto che il subalterno non abbia parlato nella storia, ma dipende dalla natura stessa dell’apparato ideologico-discorsivo dominante o egemonico, le cui categorie politiche e i cui criteri di rappresentazione, intrisi di potere, non fanno che distorcere e neutralizzare la sua “vera” soggettività. In un certo senso, questo schema ci può aiutare a capire quanto è accaduto con i fatti delle banlieues parigine in questi giorni, un caso in cui il subalterno ha fatto sentire con forza la sua voce, che il più delle volte era rimasta imprigionata o assoggettata entro l’universo, la visione o l’ideologia di buona parte dell’establishment politico-intellettuale dominante, per non parlare poi delle deformazioni diffuse e amplificate dalla “coltre mediatica”.

Quale contributo ci danno gli studi postcoloniali per capire le rivolte delle banlieues?
Se quando diciamo postcoloniale intendiamo non il fatto che il colonialismo sia finito, ma esattamente il contrario, cioè uno spazio di lotta sociale, culturale, politica ed economica caratterizzato dalla persistenza della condizione coloniale nel rapporto tra l’Occidente e i suoi altri, tra le zone centrali e quelle periferiche del mondo, allora credo che le rivolte parigine possano essere definite anche come “rivolte postcoloniali”, come episodi che ci fanno capire che il colonialismo riaffiora, ritorna come condizione rimossa e come un sintomo che va affrontato. Per certi versi, e la situazione della Francia lo dimostra chiaramente, si è ancora alle prese con il processo di decolonizzazione, ma questa volta la lotta si svolge anche all’interno delle ex potenze colonialiste o imperialiste. Il passato coloniale ha un ruolo molto importante nel presente delle banlieues, non si tratta di un fenomeno astratto, ma ha a che fare con l’incorporazione subalterna, e del tutto funzionale alla logica del mercato capitalistico, alla Francia repubblicana di quello che nelle colonie veniva chiamato “indigenato”. Un approccio coloniale alle questioni dell’immigrazione, della cittadinanza e dell’identità nazionale, sommato negli ultimi anni allo smantellamento del welfare e all’ascesa dello stato penale come unico modo di far fronte all’emarginazione e all’esclusione, ha prodotto forme di segregazione sociale, spaziale ed economica sempre più insopportabili tra i figli ed i nipoti dei “francesi di oltremare”, anche se, ovviamente, non solo tra di loro. Non dimentichiamo che alle rivolte sembra che abbiano partecipato anche giovani francesi “bianchi”, esasperati da un processo di precarizzazione e di flessibilizzazione che va avanti da anni e che ha l’esclusione come unico punto di arrivo.

Alle questioni coloniali, o postcoloniali, si lega anche una certa concezione del razzismo e le percezione di questo da parte di immigrati o minoranze etniche.
Le rivolte nelle banlieues presentano molte analogie con le rivolte di Watts a Los Angeles negli anni Sessanta, con quella di Brixton a Londra nel 1981 e con quelle successive al pestaggio di Rodney King da parte della polizia statunitense nel 1992. E’ l’esito inevitabile del razzismo istituzionale e non, delle violenze e delle vessazioni quotidiane delle forze dell’ordine, delle innumerevoli discriminazioni subite nella vita di tutti i giorni. Migranti, figli di migranti, giovani e giovanissimi nati e cresciuti in Francia ma con la pelle “scura”, oltre ad alcune frange del nuovo sottoproletariato urbano “autoctono”, sono rimasti progressivamente ingabbiati nelle maglie di un nuova forma di apartheid, in un apartheid appunto postcoloniale, razziale, sociale ed economico insieme.

Anche nella Francia della cittadinanza repubblicana….
Prima delle rivolte delle banlieues si tendeva spesso, anche nei settori progressisti della teoria sociale e politica, a mitizzare il modello francese di cittadinanza, ma poco o niente si diceva sul fatto che in Francia gli ideali repubblicani e laici sono molto legati all’identità nazionale. La questione del velo ne è un esempio molto chiaro: vietarlo nelle scuole pubbliche è sembrato un gesto imperialista, teso ad affermare non tanto l’uguaglianza fra uomo e donna, quanto la superiorità dell’identità nazionale francese, laica e repubblicana, nei confronti dell’Islam. Se poi guardiamo al passato vediamo che, arrivati nei paesi islamici in epoca coloniale, una delle prime cose fatte dai francesi è stata quella di vietare il velo ovunque. Come ben racconta Fanon, il divieto imposto dai francesi in Algeria durante la lotta anticolonialista, fece del velo un veicolo di lotta culturale e un importante strumento di riaffermazione della propria identità nei confronti degli occupanti coloniali. Quindi, se noi inquadriamo le rivolte delle banlieues all’interno di una dialettica storica, possiamo avere indicazioni interessanti e vediamo riaffiorare la storia del colonialismo e dell’imperialismo come qualcosa di intrinseco alla modernità e all’identità occidentale. Naturalmente, però, i fatti delle banlieues ci parlano anche di altre cose. In primo luogo, hanno mostrato chiaramente in che modo la destra cerchi di inquadrare alcuni conflitti sociali particolari all’interno del cosiddetto scontro delle civiltà, ovvero di “etnicizzarli”, per portare avanti il proprio programma politico, fondato in buona parte sull’esasperazione dell’ansia sicuritaria, sulla condanna delle società multirazziali, sulla riduzione dei migranti a mera forza lavoro coatta e su un pregiudizio anti-islamico piuttosto aggressivo. In secondo luogo, ci dicono qualcosa anche sull’Europa nascente, l’Europa di Schengen e dei CPT, che, improntata alla logica di un diritto postcoloniale non farà che moltiplicare le banlieue del continente.

Qual è la radice culturale da cui nasce la critica postcoloniale?
Non possiamo rintracciare una radice unica negli studi postcoloniali, però possiamo soffermarci su alcuni aspetti fondamentali che ne hanno fornito le basi. Lo sviluppo del pensiero postmoderno nella teoria sociale è certamente una di queste radici; un’altra riguarda il processo di decolonizzazione finito con le indipendenze formali negli anni Sessanta: da questo punto di vista un’importante risorsa della teoria postcoloniale è sicuramente costituita dalla critica all’imperialismo e all’eurocentrismo portata avanti dai movimenti di liberazione nazionale nonché dall’anticolonialismo allora definito come “terzomondista”. Non meno importante come risorsa è senza dubbio l’eredità del radicalismo nero afroamericano e caraibico e del movimento per i diritti civili. Un’altra radice ancora è da ricercare nel dibattito, soprattutto britannico, intorno agli studi culturali, nell’ambito dei quali si è sviluppato un approccio particolare alle questioni dell’etnicità e del razzismo. Penso qui soprattutto al lavoro del “Centre For Contemporary Cultural Studies” di Birmingham, in modo particolare agli studi di Stuart Hall e di Paul Gilroy. Un altro importante snodo nella configurazione degli studi postcoloniali possiamo trovarlo nella scuola dei Subaltern Studies indiani, i cui esponenti più noti sono Ranajit Guha, Dipesh Chakrabarty e la stessa Gayatri Spivak, che fece parte in passato di questa scuola. Ma non c’è genealogia degli studi postcoloniali che non prenda Orientalismo di Edward Said come uno dei principali punti di riferimento dell’intero campo di studi, nonostante Said non gradisse affatto il decostruzionismo dominante all’interno di buona parte degli studi postcoloniali.

Pensiero postmoderno e cultural studies, dinamiche di decolonizzazione e subaltern studies. Il panorama che si prospetta è molto vario sia dal punto di vista storico che da quello geografico.
In effetti, le radici degli studi postcoloniali, come abbiamo detto, sono diverse, ibride e transnazionali. E bisogna anche dire che è difficile definire gli studi postcoloniali sulla traccia di un unico approccio: rappresentano un insieme di posizioni comunque eterogenee o variegate. Anche all’interno del pensiero postmoderno possiamo individuare approcci e posizioni diverse; possiamo fare, ad esempio, una divisione tra un postmodernismo che potremmo chiamare banale e che tende a essere abbastanza conciliante con la logica del mercato, poco radicale nella critica del capitalismo, e che pone un antagonismo puramente estetico. Dall’altra parte esiste invece un pensiero postmoderno che ha un suo radicalismo politico e teorico e che in buona parte è confluito negli studi postcoloniali. Mi riferisco qui all’opera di autori come Barthes, Foucault, Lyotard, Derrida e Deleuze, vale a dire a prospettive epistemologiche che contenevano in sé una forte critica del soggetto e della logica di dominio euro-occidentali. Questo radicalismo insito nel poststrutturalismo ha favorito moltissimo lo sviluppo degli studi postcoloniali. Ma non sempre si è tradotto in posizioni altrettanto radicali o politicizzate. In ogni caso, bisogna constatare che negli ultimi anni si è assistito ad una politicizzazione crescente all’interno degli studi postcoloniali. Ciò che è successo nel mondo negli ultimi 6 o 7 anni, le guerra in Yugoslavia, l’occupazione o la ricolonizzazione dell’Iraq e dell’Afghanistan, le rivolte di Seattle e di Genova e la costituzione di un movimento mondiale di resistenza alla globalizzazione neoliberista ha dato una scossa non indifferente ad un campo di studi dove la spoliticizzazione letteraria e gli accademicismi più perversi non avevano certo un ruolo minoritario. In questo senso, il futuro degli studi postcoloniali non potrà che dipendere dalle posizioni che vi emergeranno in rapporto ai conflitti del mondo di oggi.

http://www.meltemieditore.it/GiornaleElementi.asp?IdGiornale=131

Miguel Mellino: Libri

Miguel Mellino (a cura di)
Post-orientalismo

Edward Said è stato uno degli intellettuali più importanti degli ultimi trent’anni. L’originalità della sua opera e il suo instancabile impegno in difesa della causa palestinese e di altri popoli e minoranze oppresse del mondo hanno dato luogo ad aspre controversie. Il suo lavoro critico ha prodotto effetti dirompenti non solo nell’ambito degli studi letterari, dove ha avuto origine, bensì in un ampio spettro della teoria sociale: dall’antropologia alla filosofia, dagli studi culturali alle storia, dalla sociologia alle scienze politiche. Inoltre, le sue analisi e critiche dei rapporti storici e culturali tra Occidente e Oriente occupano un ruolo di primissimo piano nella genealogia di uno dei più stimolanti campi di studio dell’attuale scenario politico e intellettuale internazionale: gli studi postcoloniali. Tuttavia, il rapporto tra Said e gli studi postcoloniali resta tutt’altro che lineare.
Questa raccolta propone, da un lato, alcuni dei saggi più significativi del suo percorso intellettuale: Teoria in viaggio, Altre considerazioni sull’orientalismo, Teoria in viaggio: una rilettura; dall’altro, alcuni fra gli studi più importanti e incisivi – firmati da Gyan Prakash, Aijaz Ahmad, Lata Mani e Ruth Frankenberg – sulle grandi questioni teoriche, politiche ed epistemologiche aperte dal suo lavoro più noto: Orientalismo. Lo scopo è quello di offrire ai lettori italiani i tratti del dibattito suscitato nel mondo dallo sviluppo di un’opera critica che ha radicalmente mutato il nostro modo di pensare fenomeni come l’esperienza coloniale, l’imperialismo, l’antisemitismo, i rapporti Occidente-Oriente, il ruolo della letteratura, delle istituzioni accademiche e del sapere nei processi più generali di dominio e di emancipazione.

http://www.meltemieditore.it/Scheda_libro.asp?codice=X054

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Miguel Mellino
La critica postcoloniale

“Postcoloniale” è ormai diventato uno dei termini chiave della teoria sociale. Sulla scia di questo successo, negli ultimi anni, soprattutto nei paesi anglosassoni, ha preso corpo un imponente campo transdisciplinare di studi e di ricerche socioculturali su alcune delle questioni più urgenti del mondo globale contemporaneo: quello dei postcolonial studies. Tuttavia, in Italia, postcoloniale e postcolonialismo non sempre appaiono come nozioni chiare e ben definite. A volte si presentano come contenitori capaci di promuovere concezioni e orientamenti teorici, epistemologici e politici intrinsecamente contraddittori. Questo volume, proponendosi come una genealogia critica degli studi postcoloniali, offre al lettore i contorni di un dibattito recepito finora nel nostro Paese in modo del tutto frammentario. Passando in rassegna le tematiche più ricorrenti e il lavoro degli autori più impegnati in questo campo (Said, Bhabha, Spivak, Hall, Gilroy, Young, Clifford, Appadurai), l’autore intende mettere in luce sia lo sviluppo storico del postcolonialismo sia il suo rapporto con le principali correnti della teoria sociale: il marxismo, il postmodernismo, il decostruzionismo, il post-strutturalismo. A partire dall’approfondimento di alcuni dei suoi concetti chiave – cosmopolitismo, globalizzazione, colonialismo, diaspora, critica culturale – sostiene quindi che il futuro di un campo di studi eminentemente politico come quello dei postcolonial studies non potrà che dipendere dalle posizioni che vi emergeranno in riferimento ai conflitti più pregnanti del mondo di oggi.

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Stuart Hall, Miguel Mellino
La cultura e il potere

Dopo 15 anni di boom in quasi tutto il mondo, specialmente nei paesi anglosassoni, qual è oggi la situazione dei cultural studies? Conservano ancora una carica politica alternativa o antagonista o sono stati “addomesticati” dal mercato culturale o sottoculturale e dal potere accademico? E quale funzione politica o pedagogica hanno avuto all’interno della cultura, della società o delle istituzioni britanniche? Cosa hanno in comune postmodernismo, postfordismo, postmarxismo e postcolonialismo e cosa hanno di interessante per la Sinistra o per la lotta politica o culturale nel mondo contemporaneo? Quale l’influenza della problematica gramsciana sui cultural studies? Quali sono stati gli effetti concreti degli attentati terroristici di New York, Londra e Madrid sull’opinione pubblica britannica? In che modo la diaspora può configurarsi come un concetto chiave nella comprensione dell’esperienza o della condizione politica e culturale di alcune delle comunità migranti contemporanee? Perché la Sinistra, in Europa, sembra ancora del tutto incapace a elaborare un’agenda politica radicale o quanto meno alternativa a quella neoliberista? In questa intervista di Miguel Mellino a Stuart Hall, uno dei più brillanti intellettuali inglesi di oggi, vengono affrontate questioni fondamentali degli studi culturali e analizzati fenomeni storici e sociali che investono fortemente l’attuale dibattito politico. Il punto di vista di Hall incontra le teorie e le posizioni di alcuni mostri sacri della cultura come Marx, Gramsci, Althusser, Foucault, protagonisti di alcuni filoni critici da cui l’autore prende le distanze, definendo il proprio percorso sostanzialmente autonomo e determinato, più che dalla teoria, dalla storia e dai cambiamenti in atto nel mondo.

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lunedì 20 luglio 2009

La vite continua a girare

Edward W. Said

Tocca alle vittime mostrare le nuove strade della resistenza

Internazionale 423, 9 febbraio 2002

La storia non ha pietà. Non conosce leggi contro la sofferenza e la crudeltà, non possiede un equilibrio interno capace di restituire il giusto posto nel mondo a un popolo che ha subìto grandi torti. Le visioni cicliche della storia mi sono sempre sembrate sbagliate per questa ragione, come se un giro di vite significasse che il male di oggi potrà trasformarsi in bene. Sciocchezze.
Girare la vite della sofferenza significa altra sofferenza e non una strada verso la salvezza. La cosa più frustrante della storia, tuttavia, è che in gran parte sfugge completamente alle parole, all'attenzione e alla memoria. Così gli storici, per riempire gli spazi, ricorrono a metafore e a figure retoriche. Non a caso il primo grande storico, Erodoto, fu noto anche come il Padre della menzogna: le sue opere spesso servivano ad abbellire e, in grande misura, a nascondere la verità, tanto che è la potenza della sua immaginazione a renderlo uno scrittore straordinario, non l'enorme numero di fatti che ha registrato.

Vivere negli Stati Uniti in questo momento è un'esperienza terribile. I maggiori organi d'informazione e il governo parlano del Medio Oriente facendosi eco, intanto su internet, al telefono, nei canali satellitari e sulla stampa araba ed ebraica locale circolano opinioni alternative. Sono informazioni che ogni americano medio può facilmente ottenere, ma che vengono sepolte da una valanga di immagini e notizie dall'estero ripulite da tutto ciò che non coincide con la linea patriottica voluta dal governo. Quindi, malgrado la mole di opinioni alternative, il quadro che ne risulta è stupefacente: l'America sta combattendo i mali del terrorismo; l'America è il bene e chiunque lo neghi è malvagio e antiamericano; la resistenza contro l'America, le sue politiche, le sue armi e le sue idee è quasi come una forma di terrorismo.

Quello che trovo altrettanto stupefacente è che alcuni analisti di politica estera, influenti e a loro modo raffinati, ripetano di non riuscire a capire perché il mondo intero (e in particolare gli arabi e i musulmani) non voglia accettare il messaggio americano, e perché il resto del mondo - comprese l'Europa, l'Asia, l'Africa e l'America Latina - continui a criticare gli Stati Uniti per la sua politica in Afghanistan, per aver rinunciato unilateralmente a sei trattati internazionali, per il sostegno totale e incondizionato a Israele, per il trattamento incredibilmente crudele riservato ai prigionieri di guerra. La differenza tra la percezione americana della realtà e quella del resto del mondo è così profonda e inconciliabile da sfidare ogni descrizione.

Le parole da sole non bastano a spiegare perché un segretario di Stato americano, che presumibilmente dispone di tutti i dati necessari per giudicare, possa senza ombra di ironia accusare il leader palestinese Yasser Arafat di non fare abbastanza contro il terrorismo e di avere comprato cinquanta tonnellate di armi per difendere la sua gente, mentre Israele viene rifornito gratuitamente con tutto ciò che vi è di più sofisticato nell'arsenale americano. (Va detto comunque che l'Olp ha gestito l'incidente della Karine A con un'incompetenza e una sciatteria persino al di sotto dei suoi miseri precedenti.) Nel frattempo Israele tiene rinchiuso Arafat nel suo quartiere generale a Ramallah, con la sua gente imprigionata nei Territori, i suoi leader assassinati, gli innocenti ridotti alla fame, i malati condannati a morire e la vita totalmente paralizzata.

Eppure sono i palestinesi a essere accusati di terrorismo. L'idea, e tanto meno la realtà, di un'occupazione militare che dura da trentacinque anni è semplicemente ignorata dai media e dal governo statunitense. Non dovremo sorprenderci domani se Arafat e la sua gente verranno accusati di assediare Israele e di bloccarne gli abitanti e le città. No, non sono gli aerei israeliani a bombardare Tulkarem e Jenin, sono i terroristi palestinesi con le ali che distruggono le città israeliane.

Esperti nel mentire
Quanto a Israele e ai media statunitensi, i loro portavoce sono diventati così esperti nel mentire e creare falsità che nulla è troppo per loro. Ieri ho sentito un funzionario (perfino il nome mi resta in gola) del ministero della Difesa israeliano che rispondeva alle domande di un reporter americano sulla distruzione delle case a Rafah: quelle erano case vuote, ha dichiarato senza la minima esitazione, erano covi di terroristi usati per uccidere cittadini israeliani; noi dobbiamo difendere i cittadini israeliani dal terrorismo palestinese. Il giornalista non ha neppure accennato all'occupazione e tanto meno al fatto che i "cittadini" di cui si parlava erano coloni. Quanto alle varie centinaia di poveri palestinesi senza tetto, le cui immagini sono apparse di sfuggita sui media statunitensi dopo che i bulldozer (di fabbricazione americana) avevano portato a termine le demolizioni, erano completamente svaniti dalla memoria e dalla coscienza.

Per non parlare dell'assenza di una risposta araba, che per infamia e vergogna ha superato i livelli abissali già toccati dai nostri governi negli ultimi cinquant'anni. Un silenzio così impietoso, un atteggiamento così servile e incompetente nell'affrontare gli Stati Uniti e Israele sono a loro modo altrettanto incredibili e inaccettabili delle posizioni di Sharon e di Bush. I leader arabi hanno tanta paura di offendere gli Stati Uniti da essere disposti a ingoiare non solo l'umiliazione palestinese ma anche la propria? E per che cosa? Semplicemente per poter andare avanti con la corruzione, la mediocrità e l'oppressione. Che squallido patto hanno stretto per promuovere i loro meschini interessi e ottenere l'indulgenza americana!

Quanto meno le recenti critiche alla politica americana verso Israele pronunciate da alti funzionari sauditi nel corso di alcune conferenze stampa hanno aperto finalmente una breccia nel muro di silenzio, anche se il caos e la disorganizzazione che circondano il prossimo vertice arabo continuano ad aggiungersi al nostro già ricco campionario di incidenti gestiti con insipienza, che rivelano un'assoluta mancanza di unità nascosta dietro a posizioni plateali e inutili.

La verità del dolore
Credo veramente che l'aggettivo "malvagio" (shar) sia quello giusto per definire la distorsione della verità operata dagli israeliani: mi riferisco al disconoscimento del dolore inflitto da Sharon all'insieme della Cisgiordania e di Gaza. E mentre questo dolore non può essere adeguatamente descritto o raccontato, gli arabi non dicono e non fanno niente a sostegno della lotta palestinese, gli Usa sono spaventosamente ostili, gli europei sono terribilmente inutili (fatta eccezione per la loro ultima dichiarazione, che non prevede misure di attuazione).

Tutto questo ha portato molti di noi a una disperazione che ben conosco, a una sorta di frustrazione rassegnata che è uno dei risultati a cui puntavano i funzionari israeliani e i loro colleghi americani. Ridurre la gente all'indifferenza e all'apatia, rendere l'esistenza così miserabile da far sembrare necessario rinunciare alla vita stessa: è questo lo stato di disperazione chiaramente voluto da Sharon. Lo hanno eletto per realizzare questo obiettivo e se non ci riuscirà sarà proprio questo che gli farà perdere l'incarico. E a quel punto subentrerà Netanyahu per cercare di portare a termine lo stesso compito terribile e disumano (ma in ultima analisi suicida).

Di fronte a questa situazione, la passività e la rabbia impotente - persino una sorta di amaro fatalismo - sono risposte intellettuali e politiche sbagliate. Gli esempi del contrario non mancano. I palestinesi non si sono lasciati intimidire né sono stati persuasi ad arrendersi, e questo è un segnale di grande volontà e determinazione. Viste in questa prospettiva le misure di punizione collettiva e le umiliazioni costanti inflitte da Israele si dimostrano inefficaci. Come ha osservato un generale israeliano, fermare la resistenza assediando i palestinesi è come cercare di vuotare il mare con un cucchiaio. Non funziona e basta. Ma una volta preso atto di questo dobbiamo andare oltre la resistenza tenace per passare a un'opposizione creativa, dobbiamo superare gli stanchi vecchi metodi che sfidano gli israeliani ma non riescono a promuovere gli interessi palestinesi. Prendiamo per esempio il processo decisionale. Va benissimo che Arafat resista alla sua segregazione a Ramallah ripetendo all'infinito che vuole negoziare, però questo non è un programma politico né i suoi appelli sono in grado di mobilitare il popolo palestinese e i suoi alleati. Ovviamente è bene prendere nota della dichiarazione europea di appoggio all'Autorità Palestinese, ma sicuramente è più importante dire qualcosa sui riservisti israeliani che si sono rifiutati di prestare servizio in Cisgiordania e a Gaza. Se non cominciamo a riconoscere e a lavorare d'intesa con la resistenza israeliana all'oppressione israeliana, resteremo fermi al punto di partenza.

Ogni giro di vite del crudele castigo collettivo crea dialetticamente nuovi spazi per nuovi tipi di resistenza di cui gli attentati suicidi non fanno parte, così come i proclami di Arafat (che ricordano fin troppo quanto diceva venti o trent'anni fa ad Amman, Beirut e Tunisi). Non sono nuovi e non sono all'altezza di quello che stanno facendo in Palestina e in Israele gli oppositori dell'occupazione militare israeliana. Perché non sforzarsi di distinguere i gruppi israeliani che si sono opposti alla demolizione delle case, all'apartheid, agli assassinii mirati o a ogni altra illegittima manifestazione della prepotenza israeliana? Non si potrà sconfiggere l'occupazione e ottenerne la fine senza una convergenza degli sforzi concreti e mirati di palestinesi e israeliani. E questo significa che i gruppi palestinesi (con o senza la guida della loro Autorità) devono prendere iniziative davanti alle quali fino a oggi hanno esitato (per il comprensibile timore di una normalizzazione), iniziative che implicano e sollecitano attivamente la resistenza israeliana, quella europea, araba e americana.

In altri termini, con la scomparsa degli accordi di Oslo la società civile palestinese è stata liberata dalle pastoie di quel fraudolento processo di pace. Questa nuova situazione richiede di andare oltre gli interlocutori tradizionali come il Partito laburista e i suoi tirapiedi, ormai completamente screditati, per lanciare campagne più coraggiose e innovative contro l'occupazione. Se l'Autorità Palestinese vuole continuare a invitare Israele a tornare al tavolo del negoziato va benissimo, naturalmente, sempre che si riesca a trovare qualche israeliano disposto a farlo. Ma questo non significa che le ong palestinesi debbano unirsi al coro o che debbano continuare a temere la normalizzazione - che tra l'altro si riferiva ai rapporti con lo Stato di Israele e non con le correnti e i gruppi progressisti della sua società civile che appoggiano attivamente l'autodeterminazione palestinese e la fine dell'occupazione, degli insediamenti e del castigo collettivo.

Sì, la vite gira, ma oltre a portare nuova repressione rivela anche, dialetticamente, nuove opportunità per l'ingegno e la creatività palestinese. Nella società civile palestinese ci sono già forti segnali di progresso (ne ho dato conto nel mio ultimo articolo - pubblicato da Internazionale nel numero 420): dobbiamo concentrarci soprattutto su questo, specialmente oggi che le crepe della società israeliana mostrano un popolo spaventato, chiuso e terribilmente insicuro, con un forte bisogno di essere scosso dal suo torpore. Spetta sempre alla vittima, non all'oppressore, indicare nuove vie di resistenza e i segnali dicono che la società civile palestinese sta cominciando a prendere l'iniziativa. Questo è un auspicio eccellente in un periodo di scoraggiamento e regressione agli istinti primordiali.

Traduzione di Giuseppina Cavallo

http://www.internazionale.it/firme/print.php?id=1361

Una finestra sul mondo

Edward W. Said

Gli intellettuali occidentali hanno contribuito a preparare e giustificare la guerra all’Iraq. Venticinque anni dopo la pubblicazione di Orientalismo, Edward Said ribadisce le sue tesi nella nuova introduzione al libro

Internazionale 503, 28 agosto 2003

Nove anni fa, nella primavera del 1994, ho scritto una postfazione a Orientalismo in cui tentavo di chiarire quello che pensavo di aver detto e non detto nel mio libro. In quella postfazione sottolineavo non soltanto i molti dibattiti che si sono aperti a partire dal 1978, anno della prima edizione del saggio, ma anche gli errori d’interpretazione sempre più frequenti a cui si prestava quell’opera sulle rappresentazioni correnti dell’“Oriente”.

Il fatto che io oggi reagisca a queste interpretazioni con più ironia che irritazione rivela chiaramente fino a che punto sto cedendo all’incalzare dell’età. La recente scomparsa di due miei grandi mentori intellettuali, politici e personali – gli scrittori e militanti Eqbal Ahmad e Ibrahim Abu-Lughod – ha suscitato in me tristezza e senso di perdita, ma anche rassegnazione e una certa ostinata volontà di andare avanti.

Nel mio libro di memorie Sempre nel posto sbagliato. Autobiografia (1999) descrivevo i mondi strani e contraddittori in cui sono cresciuto, e presentavo ai miei lettori e a me stesso una descrizione particolareggiata degli ambienti della Palestina, dell’Egitto e del Libano che hanno inciso sulla mia formazione. Ma quella era una descrizione molto personale, che si fermava prima degli anni del mio impegno politico, cominciato dopo la guerra arabo-israeliana del 1967.

Orientalismo è un libro molto legato alla dinamica tumultuosa della storia contemporanea. Nelle sue pagine sostengo che tanto il termine Oriente quanto il concetto di Occidente non hanno alcuna consistenza ontologica: entrambi sono opere dell’uomo, in parte come autoaffermazione, in parte come identificazione dell’Altro.

Queste grandi finzioni si prestano facilmente alla manipolazione e all’organizzazione delle passioni collettive. Questo non è mai stato più evidente di ora, quando la mobilitazione della paura, dell’odio, del disgusto e dei rinascenti orgoglio e arroganza – sentimenti che per la maggior parte hanno a che fare con l’islam e gli arabi da un lato, e “noi” occidentali dall’altro – sono imprese su larga scala.

La prima pagina di Orientalismo si apre con una descrizione della guerra civile libanese. Quella guerra terminò nel 1990, ma le violenze e gli orrendi spargimenti di sangue proseguono tuttora. Abbiamo assistito al fallimento del processo di pace di Oslo, allo scoppio della seconda intifada e alle spaventose sofferenze inflitte ai palestinesi dalla nuova invasione della Cisgiordania e di Gaza.

Ha fatto la sua comparsa il fenomeno degli attentatori suicidi, con tutte le sue atroci manifestazioni, nessuna delle quali naturalmente è più ripugnante e apocalittica degli eventi dell’11 settembre 2001 con le loro conseguenze, le guerre contro l’Afghanistan e l’Iraq. Mentre scrivo queste righe, prosegue l’occupazione illegale dell’Iraq da parte della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, le cui conseguenze sono autenticamente preoccupanti. Tutto ciò fa parte di quello che viene definito uno scontro fra civiltà implacabile, irrimediabile, senza fine. Io invece non lo credo.

Il potere bruto
Vorrei poter affermare che negli Stati Uniti la comprensione generale del Medio Oriente, degli arabi e dell’islam è migliorata, ma purtroppo non è così. Per diverse ragioni in Europa la situazione sembra migliore. Negli Stati Uniti l’irrigidimento delle posizioni, la morsa sempre più stretta delle generalizzazioni svilenti e dei cliché trionfalistici, il dominio del potere bruto alleato con il disprezzo semplicistico per i dissidenti e gli “altri” ha trovato un degno correlativo nel saccheggio e nella distruzione delle biblioteche e dei musei iracheni.

I governanti americani e i loro lacchè intellettuali sembrano incapaci di capire che la storia non si può cancellare come una lavagna per permettere a “noi” di scrivere il nostro futuro, imporre le nostre forme di vita e pretendere che quei popoli inferiori le seguano. È abbastanza comune, a Washington e non solo, ascoltare importanti esponenti politici che parlano di ridisegnare la carta geografica del Medio Oriente, come se antiche società e una miriade di popoli si potessero rimescolare come noccioline in un barattolo.

Ma questo è accaduto spesso con l’“Oriente”, concetto semi-mitico che dopo l’invasione napoleonica dell’Egitto alla fine del diciottesimo secolo è stato fatto e rifatto innumerevoli volte dal potere che ha agito attraverso una forma di sapere, costruita appositamente, per affermare che questa è la natura dell’Oriente e che dobbiamo affrontarla di conseguenza. In questo processo gli innumerevoli sedimenti della storia – una varietà vertiginosa di popoli, lingue, esperienze e culture – vengono accantonati o ignorati, mandati al macero insieme ai tesori archeologici ridotti in frammenti e portati via dalle biblioteche e dai musei di Baghdad.

La mia tesi è che la storia è fatta da uomini e donne, e può essere disfatta e riscritta, sempre con omissioni e silenzi, sempre con forme imposte e distorsioni tollerate, in modo che il “nostro” est, il “nostro” Oriente diventi una cosa “nostra” che possiamo possedere e dirigere a piacimento. Nutro grande considerazione per la forza e il talento che i popoli di quella regione mostrano nel continuare a lottare per la loro idea di ciò che sono e vogliono essere.

L’attacco alle società arabe e musulmane contemporanee per la loro arretratezza, per la mancanza di democrazia e per la negazione dei diritti delle donne è stato talmente massiccio e aggressivo che abbiamo dimenticato una cosa semplice: i concetti di modernità, illuminismo e democrazia non sono così ovvi e condivisi. La disinvoltura sbalorditiva di certi giornalisti, i quali parlano in nome della politica estera senza avere la minima conoscenza della lingua realmente parlata dalla gente, ha creato dal nulla un paesaggio desertico su cui la potenza americana può costruire un finto modello di “democrazia” da libero mercato.

Ma c’è una differenza fra quella conoscenza di altri popoli e altri tempi che scaturisce dalla comprensione, dall’empatia, da uno studio e un’analisi attenti e condotti per amor di ricerca, e l’altra conoscenza, che s’inscrive in una campagna generale di autoaffermazione, belligeranza e guerra aperta.

Indubbiamente, una delle catastrofi intellettuali della storia è il fatto che un manipolo di politici americani non eletti abbia orchestrato una guerra imperialistica e l’abbia mossa contro una sconquassata dittatura da terzo mondo per motivi prettamente ideologici, legati al dominio del mondo, al controllo sulla sicurezza del pianeta e delle sue scarse risorse, ma mascherata nelle sue vere intenzioni, sollecitata e preparata da certi orientalisti che hanno tradito la propria vocazione di studiosi.

Gli esperti
Le persone che hanno più influito sul Pentagono e sul Consiglio per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Bush sono stati personaggi come Bernard Lewis e Fouad Ajami, i due esperti del mondo arabo e islamico che hanno aiutato i falchi americani a pensare fenomeni ridicoli come la “mentalità araba” e l’ormai secolare declino dell’islam, che soltanto la potenza americana, secondo loro, può arrestare.

Oggi le librerie statunitensi sono piene di mediocri libercoli dai titoli allarmistici che parlano di islam e terrorismo, di minaccia araba e di pericolo musulmano, scritti da polemisti che fanno finta di avere una conoscenza mutuata da esperti che si spacciano per profondi conoscitori di quei bizzarri popoli orientali. La Cnn e la Fox tv, la miriade di commentatori evangelici e di destra ospitati da programmi radiofonici, innumerevoli tabloid e perfino riviste mediocri, hanno riciclato le stesse invenzioni non verificabili e le stesse grossolane generalizzazioni per aizzare l’“America” contro il demone straniero.

Il nocciolo del dogma
La guerra contro l’Iraq non avrebbe avuto luogo se non fosse stata diffusa in modo organizzato l’idea che quelli laggiù non sono come “noi” e non condividono i “nostri” valori: insomma, senza il nocciolo stesso del dogma tradizionale dell’orientalismo.

I consiglieri americani del Pentagono e della Casa Bianca usano gli stessi cliché, gli stessi stereotipi denigratori, le stesse giustificazioni del potere e della violenza (in fin dei conti, dice il ritornello, l’unica cosa che quella gente capisce è il linguaggio della forza) che usavano gli studiosi reclutati dai conquistatori olandesi della Malesia e dell’Indonesia, dalle armate britanniche in India, in Mesopotamia, in Egitto e in Africa occidentale, dagli eserciti francesi in Indocina e in Nordafrica. Adesso, in Iraq, queste persone sono state affiancate da una schiera di ditte appaltatrici private e di zelanti imprenditori cui verrà affidato di tutto, dalla redazione dei libri di testo e della costituzione, alla riorganizzazione della vita politica dell’Iraq e alla privatizzazione della sua industria petrolifera.

Da sempre, nei discorsi ufficiali, ogni impero dichiara di non essere come gli altri, di nascere in condizioni particolari e di avere una missione: illuminare, civilizzare, portare ordine e democrazia. E da sempre sostiene di usare la forza soltanto come ultimo rimedio. Ma ancor più triste è vedere che c’è sempre un coro di volenterosi intellettuali pronti a presentare l’impero sotto una luce benevola o altruistica con parole tranquillizzanti.

Venticinque anni dopo la sua prima edizione, Orientalismo torna a sollevare la questione se l’imperialismo moderno sia mai finito, o se invece sia proseguito in Oriente dopo l’ingresso di Napoleone in Egitto due secoli fa. Arabi e musulmani si sono sentiti dire che fare le vittime e lagnarsi incessantemente delle depredazioni dell’impero non è che un modo per sottrarsi alle responsabilità del presente. “Avete sbagliato, avete fallito”, dice loro l’orientalista moderno. Sulla stessa linea si colloca il contributo letterario di V.S. Naipaul, il quale descrive le vittime dell’impero intente a lamentarsi mentre il loro paese va in malora.

Che superficialità nel valutare l’intrusione imperiale! E che scarso desiderio di tenere conto dell’interminabile successione di anni durante i quali l’impero continua a pesare sulla vita dei palestinesi, tanto per fare un esempio, oppure dei congolesi, degli algerini o degli iracheni.

Si pensi, invece, alla sequenza che ha inizio con Napoleone, continua con l’ascesa degli studi orientalistici e la conquista del Nordafrica, passa attraverso analoghe imprese in Vietnam, in Egitto, in Palestina e poi, per tutto il ventesimo secolo, prosegue nella lotta per il petrolio e il controllo strategico sul Golfo, l’Iraq, la Siria, la Palestina e l’Afghanistan. Si pensi inoltre all’ascesa dei nazionalismi anticoloniali per il breve periodo dell’indipendentismo liberale, all’era dei colpi di mano militari, delle insurrezioni, delle guerre civili, del fanatismo religioso, della lotta irrazionale e della brutalità senza mediazioni nei confronti dell’ennesimo branco di “indigeni”. Ognuna di queste epoche e di queste fasi produce una sua conoscenza distorta dell’altro; ognuna dà luogo a immagini riduttive, a polemiche litigiose.

In Orientalismo l’idea era usare la critica umanistica per ampliare il terreno dello scontro, per introdurre una sequenza di pensiero e di analisi più lunga, che potesse prendere il posto delle brevi raffiche di furia polemica in cui siamo ingabbiati, una furia che paralizza il pensiero. Quel che ho cercato di fare l’ho chiamato “umanesimo”, termine che continuo ostinatamente a usare malgrado l’atteggiamento sprezzante con cui lo liquidano i sofisticati critici postmoderni. Per “umanesimo” intendo innanzitutto il tentativo di sciogliere quelle che Blake definì poeticamente “le pastoie forgiate dalla mente”, cosicché si possa usare la propria mente in modo storico e razionale allo scopo di raggiungere una comprensione riflessiva.

Aggiungo che l’umanesimo affonda le radici nel senso di comunanza con altri interpreti e altre società e periodi, tanto che a rigor di termini l’umanista non può esistere nell’isolamento.

Il contesto della storia
È dunque corretto affermare che ogni sfera è legata all’altra e che nulla di quanto accade nel nostro mondo è mai isolato e immune da influssi esterni. Dobbiamo parlare dei problemi dell’ingiustizia e della sofferenza collocandoli nel più ampio contesto della storia, della cultura e della realtà socioeconomica. Ho trascorso gran parte della mia vita, in questi ultimi trentacinque anni, a sostenere il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione nazionale, ma ho sempre tentato di farlo accordando piena attenzione alla realtà del popolo ebraico, delle persecuzioni e del genocidio che ha subìto.

La cosa importante è che la lotta per l’uguaglianza in Palestina/Israele deve tendere a una finalità umana, cioè la coesistenza, non l’ulteriore repressione e negazione.
In quanto umanista e studioso di letteratura, sono abbastanza anziano da aver ricevuto la mia formazione quarant’anni fa nel campo della letteratura comparata, le cui idee guida risalgono ad autori attivi in Germania fra la fine del diciottesimo secolo e l’inizio del diciannovesimo. Ma non si deve dimenticare lo straordinario contributo creativo di Giambattista Vico, il filosofo e filologo napoletano le cui idee anticiparono quelle di pensatori tedeschi come Herder e Wolf, seguiti poi da Goethe, Humboldt, Dilthey, Nietzsche, Gadamer e infine dai grandi filologi romanzi del ventesimo secolo, Erich Auerbach, Leo Spitzer ed Ernst Robert Curtius.

Ai giovani dell’attuale generazione, l’idea stessa di filologia suggerisce qualcosa di insopportabilmente antiquato e stantio. In realtà la filologia è la più fondamentale e creativa delle arti interpretative. Ai miei occhi è esemplificata nel modo più ammirevole dall’interesse che Goethe aveva in generale per l’islam e in particolare per Hafiz, il poeta sufico persiano del quattordicesimo secolo. Una passione che lo condusse a comporre il Westöstlicher Diwan e che incise sulle sue riflessioni sulla Weltliteratur (letteratura mondiale).

Goethe sosteneva che fosse possibile studiare tutte le letterature del mondo come un insieme sinfonico, leggibile sul piano teorico rispettando l’individualità di ciascuna opera senza perdere di vista l’insieme. È assai ironico dover constatare che, ora che questo nostro mondo globalizzato cancella gradualmente le distanze, stiamo forse avvicinandoci proprio a quella standardizzazione e a quell’uniformità che Goethe cercò di evitare con il suo pensiero.

È quanto affermava Erich Auerbach in un saggio pubblicato nel 1951 con il titolo Philologie der Weltliteratur. La sua grande opera Mimesis, pubblicata a Berna nel 1946 ma scritta durante la guerra, quando Auerbach era in esilio a Istanbul dove insegnava lingue romanze, doveva essere proprio una testimonianza della molteplicità e concretezza della realtà rappresentata nella letteratura occidentale da Omero a Virginia Woolf.

Tuttavia, a leggere il saggio del 1951, si avverte chiaramente che per il suo autore Mimesis era una vera e propria elegia scritta in onore di un’epoca in cui gli studiosi sapevano interpretare i testi in modo filologico, concreto, con sensibilità e intuito, usando l’erudizione e la loro eccellente padronanza di diverse lingue a sostegno di quella capacità di comprensione cui Goethe si richiamava nella sua analisi della letteratura islamica.

La lettura filologica
Una conoscenza delle lingue e della storia era necessaria ma non è mai stata sufficiente, così come la raccolta meccanica di fatti non avrebbe mai potuto costituire un metodo adeguato per cogliere il significato di un autore, poniamo, come Dante. Il requisito principale per quella lettura filologica che Auerbach e i suoi predecessori tentarono di mettere in pratica era infatti saper entrare in modo empatico, ma senza mai perdere la propria soggettività, nella vita di un testo scritto, esaminandolo dal punto di vista del suo tempo e del suo autore. Dunque, anziché accostarsi a tempi e culture diversi con senso di alienazione e di ostilità, la filologia applicata alla Weltliteratur richiedeva uno spirito profondamente umanistico da applicare con generosità e ospitalità. Solo così la mente dell’interprete può fare posto dentro di sé a un Altro estraneo. Quest’attività creativa, volta a far posto a opere estranee e distanti, è l’aspetto più importante della missione dell’interprete.

In Germania, inutile dirlo, l’avvento del nazionalsocialismo intervenne a delegittimare e distruggere tutto questo modo di pensare. Dopo la guerra, osserva Auerbach tristemente, la standardizzazione delle idee e la crescente specializzazione del sapere restrinsero gradualmente gli orizzonti di quel lavoro filologico investigativo e di quella ricerca incessante che egli aveva sostenuto. E il fatto ancor più deprimente è che dopo la sua morte, avvenuta nel 1957, l’idea e la pratica della ricerca umanistica hanno perso respiro e centralità. Anziché leggere nel vero senso della parola, i nostri studenti sono spesso distratti dal sapere frammentario disponibile su internet e dai mass media.

Ma c’è di peggio: l’istruzione è minacciata da ortodossie nazionalistiche e religiose spesso diffuse dai media, che puntano i riflettori in modo astorico e sensazionalistico sulle remote guerre elettroniche. Queste, mentre danno allo spettatore un senso di precisione chirurgica, in realtà oscurano le tremende sofferenze e devastazioni prodotte dalla guerra moderna. Nella loro demonizzazione di un nemico ignoto, etichettato come “terrorista” per mantenere l’opinione pubblica in stato di tensione rabbiosa, le immagini proposte dai mass media riscuotono un’attenzione eccessiva e si prestano a essere sfruttate in tempi di crisi e d’insicurezza come quelli del dopo 11 settembre.

Come americano e come arabo, devo chiedere al mio lettore di non sottovalutare la visione del mondo semplificata che l’élite relativamente esigua di civili che lavora al Pentagono ha elaborato e proposto come politica americana verso l’intero mondo arabo e musulmano. Una visione in cui il terrorismo, la guerra preventiva e i cambiamenti unilaterali di regime, sostenuti dal bilancio militare più gonfiato della storia, sono i concetti chiave discussi incessantemente da organi d’informazione che si attribuiscono la funzione di produrre cosiddetti “esperti”, i quali confermano la linea del governo.

La riflessione, il dibattito, l’argomentazione razionale e i principi morali fondati sul concetto laico secondo cui gli esseri umani devono plasmare da soli la loro storia sono stati sostituiti da idee astratte che celebrano l’eccezionalità americana e occidentale, sminuiscono l’importanza del contesto e guardano alle altre culture con disprezzo.

Mi si obietterà forse che stabilisco nessi troppo diretti fra interpretazione umanistica da una parte e politica estera dall’altra, e che una società tecnologica moderna, la quale oltre a un potere senza precedenti dispone di internet e degli aerei caccia F-16, deve essere comandata da temibili esperti tecnico-politici come Donald Rumsfeld e Richard Perle. Ma quel che si è perso davvero è il senso dello spessore e dell’interdipendenza della vita umana, che non si può né ridurre a una formuletta né liquidare come irrilevante.

Questo è solo un aspetto del dibattito globale. La situazione nei paesi arabi e musulmani non è certo migliore. Anzi, come ha osservato Roula Khalaf, giornalista del quotidiano britannico Financial Times, la regione è scivolata in un facile antiamericanismo che denota scarsa comprensione di che cosa sia davvero la società statunitense. Poiché i governi dei paesi arabi sono relativamente impotenti a influire sulla politica americana, usano le loro energie per reprimere e assoggettare i loro stessi popoli.

Risultato? Risentimento, rabbia e vane imprecazioni che nulla fanno per rendere più aperte quelle società dove la concezione laica della storia e dello sviluppo umano è stata scalzata dal fallimento e dalla frustrazione, ma anche da un islamismo fatto di apprendimento acritico dei testi e di cancellazione di forme di sapere secolare, considerate “altre” e concorrenziali. La graduale scomparsa della luminosa tradizione dell’ijtihad islamico, cioè del processo di elaborazione delle norme islamiche a partire dal Corano, è uno dei grandi disastri culturali del nostro tempo. Il risultato è che ogni pensiero critico e ogni tentativo individuale di affrontare seriamente i problemi del mondo moderno sono semplicemente tramontati.

Identità collettive
Con ciò non intendo certo dire che il mondo culturale sia semplicemente regredito da una parte a un orientalismo bellicoso, e dall’altra a un rifiuto indiscriminato. Il vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite tenuto l’anno scorso a Johannesburg, con tutti i suoi limiti ha però rivelato un vasto terreno di interessi globali comuni, il che denota come fatto positivo l’emergere di una nuova collettività e conferisce nuova urgenza al concetto spesso banalizzato di mondo “unito”.

Ma tuttavia dobbiamo ammettere che nessuno può davvero conoscere l’unità straordinariamente complessa del nostro mondo globalizzato. I tremendi conflitti che sospingono le persone entro categorie falsamente unificanti come “America”, “Occidente” o “islam” e che inventano identità collettive a uso e consumo di vaste masse di individui in realtà molto diversi vanno contrastati. Per farlo disponiamo ancora delle capacità interpretative razionali che formano il retaggio dell’educazione umanistica, intese non come un pietismo sentimentale che c’imponga di tornare ai valori tradizionali o ai classici, bensì come pratica attiva di un discorso razionale, mondano e secolare.

Il mondo secolare è il mondo della storia così come la fanno gli esseri umani. Il pensiero critico non si assoggetta agli ordini di unirsi ai ranghi di chi marcia contro questo o quel nemico riconosciuto. Anziché a un artificioso scontro di civiltà, dobbiamo dedicare la nostra attenzione al lento e paziente lavoro comune delle culture che di volta in volta si sovrappongono, prendono in prestito le une dalle altre e coesistono.

Ma per raggiungere questa visione più ampia occorre tempo, occorre un’indagine paziente e scettica, sorretta dalla fede in comunità di interpretazione ben difficili da tener vive in un mondo che esige azioni e reazioni istantanee. La concezione umanistica si basa sul concetto di ruolo attivo del soggetto umano e della sua intuizione, anziché su luoghi comuni e autorità imposte dall’esterno. I testi vanno letti come prodotti che sono nati e continuano a vivere in mille modi che io ho definito mondani. Ma ciò non esclude affatto il potere. Al contrario, ho cercato di mostrare come il potere s’insinui persino nelle discipline più recondite e vi s’intrecci.

L’ultima cosa, ma non in ordine d’importanza, che vorrei dire è che l’umanesimo costituisce l’unica – oserei dire anche la massima – forma di resistenza contro le pratiche inumane e le ingiustizie che deturpano la storia dell’umanità.

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Il mondo scomodo di Edward Said

di Maria Antonietta Saracino, tratto da "il manifesto", 26 settembre 2003

«Ciascuna famiglia si inventa i propri genitori e figli, assegnando a ognuno di essi una storia, un carattere, un destino, o addirittura una lingua. Nel modo in cui sono stato inventato io, per essere inserito nel mondo... c'è stata una sfasatura fin dall'inizio. Che essa fosse dovuta a una lettura sbagliata da parte mia del ruolo assegnatomi oppure a un qualche radicato difetto del mio essere, non avrei saputo dire... la sensazione dominante era quella di essere sempre nel posto sbagliato». A sentirsi Out of place, ossia Sempre nel posto sbagliato, dal titolo che dà a una intensa memoria autobiografica (Feltrinelli), è Edward Said, comparatista grandissimo, saggista, docente alla Columbia University, commentatore politico tra i più lucidi e seguiti, nonché testimone e portavoce della complessità - culturale, oltre che politica - del conflitto israelo-palestinese. Quando, nel 1994, decide di porre mano alla sua autobiografia, che apparirà in America cinque anni più tardi, Said ha appena saputo di essere ammalato di leucemia: anzi, è la notizia stessa della malattia a spingerlo a ricomporre in scrittura i molti frammenti di una vita - eccentrica nella sua singolarità eppure al tempo stesso esemplare, e in questo degna di essere condivisa - tutta segnata dalla Storia.
Eccentrica sin dal nome che porta, e che fin da piccolo gli crea imbarazzo: Edward, indiscutibilmente inglese, per simpatia verso il Principe di Galles, cucito al cognome arabo Said: «Per anni mi mangiavo l'Edward, sottolineando il Said; oppure facevo il contrario, oppure li pronunciavo insieme così rapidamente che nessuno dei due risultava chiaro». Infine una precaria appartenenza al luogo, una geografia personale e familiare destinata più volte a ridefinirsi. Perché Said nasce nel 1935 a Gerusalemme Ovest, ma già dalla primavera del 1948 la famiglia viene sradicata da quei luoghi e non è più tornata dall'esilio, in Egitto dapprima, poi in una disapora che per lui prenderà la direzione dell'Occidente. Sarà la malattia a riportarlo, dopo decenni trascorsi negli Usa, in Palestina, ritorno, del quale lungamente scriverà.
Era dunque fatale che questa pluralità di identità, perlopiù conflittuali, questa compresenza di lingue e di luoghi, avrebbe offerto al Said studioso, al comparatista, una angolatura del tutto speciale attraverso la quale leggere la letteratura, suo campo di elezione. Uno sguardo di confine, per così dire, a partire dal quale si disegna un progetto critico che Said nitidamente persegue fin dal lontano 1966, anno in cui appare Joseph Conrad and the Fiction of Autobiography; che prosegue poi con Beginnings, del 1975, uno studio sul tema della soglia, dell'inizio, del testo narrativo, nel quale Said analizza i capisaldi delle letterature europee.
Dal concetto di soglia a quello di frontiera il passo è breve, e naturale, per chi come Edward Said porti nella sua storia la ricchezza di un sapere che unisce inestricabilmente Oriente a Occidente. Nel 1978, con Orientalism Said consegna una lettura fondamentale del rapporto tra oriente e occidente, attraverso il consapevole ruolo che stereotipi sapientemente costruiti hanno giocato nella definizione, da parte della cultura europea, dell'«altro-da-sé». Sì, perché, Said ci spiega in un testo che rappresenta a tutt'oggi un imprescindibile punto di riferimento per chiunque voglia davvero riflettere sui rapporti tra culture, tutti credono di sapere cosa sia oriente, del quale si ha una idea generica quanto inesistente, quasi che si trattasse di una entità naturale data, basata sul posto speciale che questo occupa nell'esperienza europea occidentale. Allo stesso modo in cui, genericamente, si crede di avere una definizione di orientalismo
E invece, scriveva Said già più di trent'anni addietro, in una appassionata rivendicazione di un punto di vista corretto, l'oriente non è una entità data: «L'Oriente non è solo adiacente all'Europa; è anche la sede delle più antiche, ricche, estese colonie europee; è la fonte delle sue civiltà e delle sue lingue; è il concorrente principale in campo culturale; è uno dei più ricorrenti e radicati simboli del Diverso. E ancora, l'Oriente ha contribuito, per contrapposizione, a definire l'immagine, l'idea, la personalità e l'esperienza dell'Europa (o dell'Occidente). Nulla, si badi, di questo oriente, può dirsi puramente immaginario.... Credere che l'Oriente sia stato creato per il solo gusto di esercitare l'immaginazione, sarebbe alquanto ingenuo, oppure tendenzioso». Perché, conclude Said, «Il rapporto tra Oriente e Occidente è una questione di potere, di dominio, di varie e complesse forme di egemonia».
E' da questo studio, ancora oggi quantomai attuale, che prende forma quello che rimane a tutt'oggi, per gli studiosi di letteratura - quella inglese in particolare - la più completa e documentata analisi sul ruolo centrale che la narrativa ha rivestito nella costruzione del consenso nei confronti del colonialismo prima, e degli imperialismi poi, ossia Culture and Imperialism, (Cultura e imperialismo, Gamberetti, 1998).
Un testo talmente ricco e appassionante, sostenuto da una altrettanto ricca capacità di scrittura, che per festeggiarne l'uscita dell'edizione inglese, oltre 450 pagine, presso Chatto & Windus, nel febbraio 1993, la Bbs mise in onda un bellissimo programma di quasi due ore che traduceva in un sontuoso reportage televisivo, ricco di testimonianze dirette di autori e critici, di filmati d'epoca e di ricostruzioni storiche, i quattro densi capitoli di un grande viaggio all'interno della forma-romanzo. Uno scritto di critica letteraria di ampio respiro, sotteso da rigore critico, da un deciso e dichiarato punto di vista ideologico e al contempo appassionante come un romanzo.
Cultura e imperialismo parte dal fondamentale ruolo rivestito in Occidente dalla letteratura nella costruzione del consenso nei confronti dell'imperialismo; dalla idea che il cosiddetto «canone letterario ufficiale», che ha al suo centro i grandi romanzi del Settecento e dell'Ottocento, sia stato deliberatamente costruito, soprattutto in Inghilterra, lasciando fuori, oppure dando per scontato, tutto ciò che accadeva aldilà dei confini della Gran Bretagna e in particolare nei vasti territori d'oltremare da questa asserviti, e che alla «madrepatria» garantivano benessere e prosperità. Come dire che l'idea di sé come universo egemone che l'Europa, e in particolare l'Inghilterra, costruisce attraverso la letteratura nel corso di almeno due secoli è resa possibile dalla sistematica cancellazione della voce dell'altro.
Una voce che tuttavia è sempre esistita, Said ci dice, contrariamente a quanto si è voluto pensare o far credere, perché «non è mai accaduto che la partita dell'imperialismo vedesse in campo un invasore occidentale attivo contro un indigeno non-occidentale passivo e inerte: vi è sempre stata qualche forma di resistenza attiva e nella stragrande maggioranza dei casi. Questa, alla fine, ha avuto la meglio». E tale disegno, tale geografia nascosta, della letteratura basata su questi due fattori, ossia l'esistenza di un modello culturale imperiale più generale, valido per tutto il mondo, e un'esperienza storica di resistenza all'impero, Edward Said lo costruisce attingendo a piene mani alla voce dei testi. Testi che decostruisce e scompagina, obbligandoci a una rilettura che sposta il punto di vista più ovvio, per illuminare, in ciascuno di essi, aspetti troppo spesso ritenuti marginali.
Per ricomporre un ordine, che rimettendo al loro posto le tessere di un mosaico in continuo movimento, rendesse giustizia ai soggetti deboli che la letteratura cosiddetta maggiore aveva da sempre tacitato e mal rappresentato. Voci troppo spesso condannate al silenzio, perché, come diceva di se stesso Edward Said - del quale ci mancheranno la forza dell'intelligenza, il fascino della parola, e la bellezza del volto -, troppo spesso collocate nel posto sbagliato.

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Articoli di Edward Said

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Edward Said (articolo di Giorgio Baratta)

Giorgio Baratta
Dopo aver riletto (nell'accurata traduzione italiana) lo splendido "Labirinto delle incarnazioni dedicato alla filosofia del vissuto di Merleau-Ponty" - primo dei 46 saggi disposti in ordine cronologico (1967-1998) che compongono Nel segno dell'esilio ( Reflexions on Exile and Other Essays , trad

Giorgio Baratta
Dopo aver riletto (nell'accurata traduzione italiana) lo splendido "Labirinto delle incarnazioni dedicato alla filosofia del vissuto di Merleau-Ponty" - primo dei 46 saggi disposti in ordine cronologico (1967-1998) che compongono Nel segno dell'esilio ( Reflexions on Exile and Other Essays , trad. it. di M. Guareschi e F. Rahola, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 655, 45 euro), pubblicato dallo stesso Edward Said nel giugno 2000 - ho avuto la brillante idea di ripercorrere il testo dall'ultimo saggio (unico non datato) sino a tornare al primo. E' stata così appagata la mia ansia di attualità. Non consiglierei però ai lettori di seguire la medesima procedura, perché così si perde l'essenziale: e cioè il gramsciano "ritmo del pensiero in sviluppo", che costella passo per passo l'andamento di questo libro.
Ritmo di uno sviluppo: sono espressioni calzanti. Nel segno dell'esilio si presenta come una sinfonia, che potremmo immaginare articolata in quattro metaforici movimenti: allegro ma non troppo, andante con moto, scherzo, finale presto, associando ad ognuno dei movimenti una o più "figure" saidiane.
L'allegro ma non troppo copre i primi 14 saggi e si conclude con le "Esplosioni di significato" (1982) dedicato a John Berger, artista-scrittore caro a Said per la carica politica e libertaria che anima la «continua ricerca di verità accessibili alle arti visive». La questione irrisolta di Berger, fotografo non solo del presente ma «della memoria e del passato», e che riguarda anche Merleau-Ponty «visibilista» è: «che fare?», «che dire del futuro?», come passare «dall'estetica all'azione»? Il breve saggio su Berger è preceduto dal lungo e complesso "Opposizione, pubblico, referenti e comunità", uno dei gioielli del libro. Viene messo in rilievo un punto di approdo storicamente negativo, generatore di «un certo numero di imperativi epistemologici e ideologici», che Said chiama l'"Era di Ronald Reagan". L'analisi è impietosa nella denuncia della degenerazione dello spirito critico e secolare o mondano, fautore di "un umanesimo più universale" di quello realmente esistito, circoscritto all'Occidente. Bersaglio concreto di Said è il «comfort dell'atteggiamento specialistico» che si bea delle gabbie e «ghetti disciplinari in cui, come intellettuali, siamo stati confinati», e che cede «la rappresentazione oggettiva del mondo (da sempre un potere) a un ristretto novero di esperti e ai loro clienti». Tutti i processi sociali e culturali vengono subordinati a una logica di mercato mascherata di efficientismo, scientismo e progressismo, sostanzialmente antidemocratica. Said ci "rappresenta" plasticamente il controllo da parte di una «ristretta e potente oligarchia» di circa il 90 per cento della società dell'informazione e dei flussi di comunicazione a livello mondiale.
All'approdo drammatico cui abbiamo accennato corrisponde per contrasto la crescita potenziale degli elementi portanti di uno «spazio orizzontale e secolare» nel cui terreno l'attività rappresentativa e interpretativa non riconosce «nessun centro, nessuna inerzia, nessuna autorità scontata e accettata», nessun dogma, nessuna religione. Si afferma un "lavoro intellettuale secolare" che Said vede proposto nella misura più pregnante dalla coppia ideale Vico-Gramsci, e che riconosce come suoi maestri, in toni e limiti diversi, Kuhn, Foucault e Fish, ma anche i citati Merleau Ponty e Berger, e Lukács e Adorno, e in modo particolarissimo, andando a ritroso nel tempo, Conrad, presentato simpaticamente da Said, rispetto alla sua stessa esperienza di lettura e di studio, come un "cantus firmus" .
Entriamo nel movimento più lungo, che abbiamo chiamato andante con moto, e che si addentra particolarmente nei percorsi determinati dall'anima palestinese, araba, "orientale" di Said. Prende le mosse dai "Riti egizi" (1983), riferito all'apertura della nuova sezione egiziana del Metropolitan Museum. L'Egitto, scrive Said, che vi ha trascorso buona parte della sua giovinezza, gode ancor oggi (nell'epoca di Sadat che ha frustrato le novità contraddittorie ma "interessanti" di Nasser) di una «integrità millenaria», ove però «l'eredità araba del paese non si adatta al suo presente arabo». «Qual è il vero Egitto? Come possono i moderni egiziani svincolarsi da un sistema mondiale egemonizzato dall'Occidente senza precipitare in in un mondo fossilizzato di traffici aridi e annichilenti?». Il movimento si conclude con il racconto-gioiello "Omaggio a una danzatrice del ventre" (1990): cioè a una divina sovversiva contraddittoria artista del corpo, la sensuale egiziana Tahia Carioca - reincarnazione della figura della almeh (letteralmente, "la donna istruita") vagheggiata «da una schiera di viaggiatori europei come Henry Lane e Flaubert nei resoconti dei loro viaggi in Oriente» - incontrata al Cairo, sul finire del 1989, ormai settantacinquenne, da Said. Compare in questo arco il saggio bellissimo che dà il titolo all'edizione originale del libro, "Riflessioni sull'esilio": che è «qualcosa di singolarmente avvincente a pensarsi, ma di terribile a viversi … la tristezza di fondo che lo definisce è inaggirabile»; e tuttavia Said si sente fratello di Auerbach nel rievocare la «straordinaria bellezza» delle parole di Hugo di Saint-Victor, un monaco sassone del XII secolo: «Perfetto è solo colui al quale il mondo intero appare come una terra straniera».
"Lo scherzo" (1991-1995) si inaugura con una magistrale "Introduzione a Moby Dick" per una nuova edizione del romanzo curata da Said, e si snocciola in una forma-sonata ove si intrecciano (come del resto in tutto il libro) tra esposizione, sviluppo e ripresa - temi e percorsi più vari, dalla filosofia alla letteratura e l'estetica, dalla politica alla musica. Si conclude con un altro gioiello: "Storia, letteratura e geografia" che mette a confronto il senso del tempo di Lukács con il senso dello spazio di Gramsci. Le pagine 516-520 sono a mio avviso tra le più penetranti mai scritte sul filosofo sardo. Il punctum (nel senso di Barthes) è la straordinaria energia immaginativa con la quale Said si proietta sul vissuto carcerario di Gramsci - universale singolare, avrebbe detto Sartre - quale genealogia dell'opera. Credo che Said sia il primo (con un antecedente forse in Luporini) ad aver considerato il pensiero «radicalmente secolarizzato» di Gramsci quale «erede di una cospicua tradizione italiana di pessimismo materialista che va da Lucrezio a Vico a Leopardi».
Il finale è nel segno della musica. Dopo Il genio di Bach, l'eccentricità di Schumann, la crudeltà di Chopin, il talento di Rosen, leggiamo "Dal silenzio al suono e… ritorno" (1997), che è indirettamente un'esemplare, per alcuni aspetti secondo me definitiva risposta al celebre quesito di Gayatri Spivak ("Possono i subalterni parlare?"). Compare in questo saggio un personaggio forse inaspettato per chi è abituato a vedere in Said, oltre che un saggista impegnato, anche un musicista con gusti prevalentemente classici o tradizionali. Mi riferisco a John Cage, del quale Said ricorda il comune sodalizio newyorchese per un anno intero all'epoca del Sessantotto. Il richiamo a Spivak intende sottolineare indirettamente come in questo testo Said - che considera Wagner come un geniale maniaco del suono=vita, ossessionato dalla paura del silenzio=morte - giunga a proclamare il rispetto (se non la necessità) del silenzio, quando rappresenta l'unica forma di opposizione al «sequestro del linguaggio che è leitmotiv del nostro tempo».
Finito il libro, pardon la sinfonia, al silenzio subentra il brusio della memoria che ci riporta ad altri testi e ad altri motivi, in primo luogo a The World, the Text and the Critic , pubblicato anch'esso, nel 1983, dalla Harvard University Press (mai tradotto in italiano), e anch'esso espressione diretta di 12 anni di "lavoro di insegnamento e di studio". C'è una sovrapposizione perché Nel segno dell'esilio raccoglie saggi scritti dal 1967. «Gran parte del materiale qui raccolto - sottolinea Said - è in contrasto con la politica, e si colloca nell'ambito dell'estetica, sebbene le relazioni tra politica ed estetica, oltre che molto produttive, siano continuamente ricorrenti». Per venir compreso e ripercorso nelle correnti profonde che lo alimentano, il libro va letto insieme al più breve Umanesimo e critica democratica , pubblicato postumo nel 2004 dalla Columbia University Press, tradotto recentemente in Italia da Il Saggiatore.
Due libri di Said possono venir considerati come il suo opus magnum: Orientalismo (1978, trad. ital. 1991), la sua opera più famosa, alla cui rilettura è dedicato qui un saggio (del 1985), che prende posizione sulla grande costellazione di critiche che gli sono state rivolte con motivazioni, dice Said, prevalentemente politiche, sia nel senso dell'odio contro la Palestina, sia nel senso dell'avversione a ciò che Said chiama «politica del sapere», inteso come un «diffuso e generalizzato attraversamento di confini», che contraddice la cultura canonizzata e disciplinare (disciplinata) sostenuta dagli orientalisti. L'altro candidato, per così dire, a presentarsi come opus magnum di Said è Cultura e imperialismo (1993, trad. it. 1998): un libro sfortunato, curato benissimo dal compianto Stefano Chiarini (assieme a Patrizio Esposito), per le edizioni Gamberetti, da lui dirette. Sfortunato in senso letterale, per la scarsa… fortuna e attenzione che è stata riservata a quest'opera (tutta da studiare), che espone ed esprime a tutto tondo la necessità di una lettura contrappuntistica della storia e della (delle) civiltà.
Nel senso dell'esilio è a sua volta un opus magnum. Come il più breve, saporito piccante pamphlet sull' Umanesimo , questo libro è una lunga meditazione-conversazione civile nata interamente all'interno del lavoro di Said alla Columbia University. Il saggio in esso contenuto "Identità e libertà. Il sovrano e il viaggiatore" (1991), scritto da Said ospite dell'Università di Citta del Capo (in una Sud-Africa ancora afflitta dall'apartheid) è un inno alla libertà accademica e di pensiero, alla vena utopica nonostante tutto ancora possibile nel mondo universitario. Qui il leitmotiv, dominante in tutta l'opera di Said, il contrappunto e le sue variazioni, aderisce al vissuto del critico palestinese-americano: al suo zigzagare efficace rigoroso produttivo tra studio e vita, tra pensiero e azione, tra mondo e Palestina (la sua Palestina, per la quale, in punta di morte, egli si è drammaticamente chiesto se le avesse rivolto tutte le attenzioni possibili). Con la terminologia di uno degli ultimi saggi del libro, "Sulle cause perse" (1997), le sorti della sua patria (una delle sue tante patrie, la più tormentata) gli apparivano funeste. Ma il saggio si conclude con una domanda, che amiamo fare nostra, proponendoci di continuare con Said: "Davvero una causa persa è persa per sempre?"

Liberazione 24/07/2008