giovedì 10 dicembre 2009

I Quaderni non sono un bricolage, c'è la trama della rivoluzione

In libreria una raffinata interpretazione filologica di Raul Mordenti sul pensiero gramsciano. Gli scritti del carcere rompono con la tradizione enciclopedica. Sono un'opera-mondo, come i testi di Benjamin e Canetti. Ma non sono uno zibaldone caotico

Giorgio Baratta

Immaginiamo di trovarci, nella nostra automobilina filologica, sulla superficie di un territorio molto noto ma poco conosciuto. Possiamo viaggiare in lungo e in largo, in qualsiasi direzione. Attenzione. Stiamo toccando la Terra, con tante città e paesi - lettere, note e appunti - dell'Opera del carcere di Antonio Gramsci. Le strade sono impervie e assai tortuose; a volte si tratta di sentieri o sentierini; sono rari percorsi rettilinei o con curve agili e larghe. Scarsa e confusa la segnaletica. Ma il viaggio è affascinante,ricco di sorprese.

Abbiamo ricevuto un incarico: disegnare la mappa dell'intero territorio, suddividendolo in aree regioni province località, fissando i confini, determinando sovrapposizioni. Obiettivo è verificare se in Terra Gramsci regni un ordine segreto e sotterraneo (totalità) che si accompagni all'evidente anarchia nella quale vivono, tutto sommato serenamente, i cittadini (i frammenti).Chi è disposto ad aiutarci?

Ecco qua, Raul Mordenti, con il suo bel nuovo libro Gramsci e la rivoluzione necessaria (Editori Riuniti, pp. 206, euro 14). Ci spiega che siamo in presenza di un'Opera Mondo, anzi di un'Opera Vita, che pertanto va percorsa con lo spirito della "filologia vivente", come quella che anima o deve animare la visione di questa Terra con rispetto e fedeltà verso i singoli frammenti, intesi sempre come parti, grandi o piccole, a volte piccolissime di un vasto organismo; ci spiega inoltre, Raul, che la filologia vivente già pulsa nella circolarità o traducibilità reciproca tra dirigenti, quadri e base del partito politico cos? come lo ha rifondato idealmente Terra Gramsci. Il punto, continua Raul, è che organismo-parole e partito-democrazia sono totalità per natura aperte, illimitate, interminate e interminabili (strutture dialogiche, costantemente in cerca di nuovi interlocutori). Ma se è cos?, se questa terra è cos? frastagliata e complicata, non sarebbe allora meglio o più facile tagliare il nodo, buttare a mare la totalità e il partito, e immergersi in essa come in un postmoderno zibaldone fatto di sano caotico bricolage? No! dice Raul: se rinunciamo alla totalità, rinunciamo alla dialettica, se rinunciamo alla dialettica, rinunciamo alla rivoluzione e insomma… a Gramsci.
Sembrano due le anime - ma è una sola - dell'autore di questo libro: quella ancora hegeliana, che attribuisce la "paradossale attualità" di Gramsci, teorico della sconfitta (come già sottoline?, ai tempi della Thatcher, Stuart Hall) all'inattuale percorso di un pensatore comunista sino alle midolla, tutto intento a scavare dentro «la trama fondamentale del concetto di rivoluzione», appassionato del presente-futuro dell'umanità, ancor più che implacabile impietoso analizzatore del passato; e quella sottile e sofisticata del critico letterario comparato che sa leggere Gramsci in contrappunto con Valéry, Benjamin, Canetti, e ragiona sottilmente sulla distruzione-creazione che Gramsci-Mondo opera nei confronti della circolarità chiusa della vecchia en-ciclo-pedia, aprendo un terreno che, come il Gadda letto da Calvino, si presenta «come un garbuglio, o groviglio, o gomitolo».
La lettura del libro è scorrevole, in realtà ardua perché, anche in un capitolo puramente storiografico, come quello dedicato al Gramsci di Togliatti, l'unità delle due anime non appare cos? immediatamente. Qualcuno dirà: vedi che avevo ragione io a ritrovare in Raul un nostalgico del determinismo, se egli attribuisce alla dea-pubblicità la capacità di «rinviare il giorno della fine» di questo «ossessivo sovra-consumo improduttivo di massa» che è diventato il capitalismo. In realtà, nel gioco delle due anime c'è una base fertile per un'esegesi paziente del lavoro di Mordenti. Qui si voleva soprattutto ringraziarlo per il pregevole prezioso servizio arrecato agli inizi di quella che forse si presenta come la terza fase della fortuna di Gramsci: dopo la fortuna nazionale innescata dall'edizione togliattiana e quella internazionale in seguito all'edizione critica gerrataniana, la fortuna che oggi si presenta come regionale-nazionale-internazionale, avviata dalla pubblicazione del primo volume, non a caso di "traduzioni", dell'edizione nazionale degli Scritti di Gramsci.
Rivoluzione ed egemonia sono due fermenti organicamente combinati. «L'egemonia va costruita fin d'ora; essa non è affatto il "contrario" della rivoluzione ma è invece la condizione e la forma della rivoluzione in Occidente». Per illustrare e dimostrare questa tesi, Raul percorre un itinerario ampissimo, dal giovane Gramsci ordinovista fino alle interpretazioni recenti, in particolare quelle di Hall, Said e dei Cultural Studies. Che dire di questa tesi? La filologia, cos? giustamente cara a Mordenti, informa che - certo anche in conseguenza della censura carceraria - Gramsci non parla di rivoluzione in assoluto, senza aggiunte; parla piuttosto di «rivoluzione in permanenza», come espressione della vittoriosa guerra di movimento della borghesia, a partire dalla presa della Bastiglia, espressione da lui usata anche a proposito della conquista del potere da parte del proletariato in Russia, assimilabile alla guerra di movimento. Per intendere invece la nuova epoca "complessa" della guerra di posizione in Occidente, Gramsci conia la fondamentale categoria di "rivoluzione passiva", che vede nuovamente la borghesia al posto di comando. E il proletariato? Per esso la strategia è fondata sulla lotta egemonica.
Una teoria elaborata in primo luogo da Lenin che considera l'egemonia come una «forma attuale della dottrina […] della "rivoluzione permanente"». Il problema, centrale e delicatissimo, sta nel fatto che Lenin ha elaborato la teoria dell'egemonia in una situazione di guerra di movimento, mentre Gramsci la rivisita e la ripropone nella mutata temperie della guerra di posizione. Lenin stesso, ricorda Gramsci, aveva sottolineato come il movimento operaio internazionale non sia riuscito a "tradurre" nelle lingue europee la lingua della rivoluzione d'ottobre. Ci si chiede pertanto: l'"attualità" che Gramsci riconosce alla "rivoluzione permanente" vale, oltre che per l'ottobre sovietico, anche per la lotta egemonica in Occidente? Su questo punto è in atto una controversia tra alcuni studiosi, tutt'altro che secondaria o puramente nominalistica.
In carcere Gramsci attenua consapevolmente la fraseologia rivoluzionaria. Nel trascrivere un passo dal Quaderno 8 al Quaderno 10 passa dal concetto di "rivoluzione culturale" a quello di "riforma morale e intellettuale".
E allora? Un'ipotesi, recentemente avanzata da Giuseppe Prestipino, è che la mordentiana "necessità della rivoluzione" sia adeguatamente traducibile, in linguaggio gramsciano, con necessità della "riforma morale e intellettuale". Ci? significherebbe che dobbiamo rivedere per intero i concetti tradizionali di riforma e rivoluzione. Ma è proprio a questo tipo di coraggio e di ardimento che ci invita, con tutta la sua passione comunista, l'abilissimo pilota della preziosa automobilina filologica.

.[da «Liberazione», 19/07/2007]

http://www.gramscitalia.it/mordenti.htm

martedì 8 dicembre 2009

Said: qualche nota bibliografica

11568. Said, Edward W. Orientalism. New York: Pantheon Books, 1978 [Reprinted paperback New York: Vintage Books, 1979]. Pp. xiii, 369, ad nomen. [Eng.]

11569. Said, Edward W. «Reflections on Recent American "Left" Literary Criticism,» Boundary 2: A Journal of Postmodern Literature and Culture. [Binghamton, NY], 1 (Fall, 1979). VIII., 11-30. [Eng.]

[Reprinted in The Question of Textuality. Edited by William V. Spanos, Palu A. Bove and Daniel O'Hara. Bloomington: Indiana University Press, 1982, pp. 11-30.]

11571. Said, Edward W. «Opponents, Audiences, Constituencies, and Community,» Critical Inquiry, 1 (1982), 1-26. [Eng.]

11572. Said, Edward W. «American Intellectuals and Middle East Politicals: An Interview by Bruce Robbins,» Social Text, 19-20 (1988), 37-53. [Eng.]

11573. Said, Edward W. «Preface,» in Selected Subaltern Studies. Edited by R. Guha and Gayatri C. Spivak. Oxford: Oxford U.P., 1988, pp. v-x. [Eng.]

11574. Said, Edward W. «Gramsci e l'unità di filosofia, politica, economia [Interview],» in Modern Times: Gramsci e la critica dell'americanismo. A cura di Giorgio Baratta e Andrea Catone. Milan: Cooperativa Diffusioni '84, 1989, pp. 353-55. [Ital.]

[Taken from the interview done in connection with the movie «Gramsci l'ho visto così», by Giorgio Baratta and Gianni Amico, shown on Italian TV, on November 12, 1988.]

11575. Said, Edward W. Culture and Imperialism. New York: Knopf, 1993 [Reprinted in paperback New York: Vintage Books, 1994]. Pp. xxviii, 380, passim, cf. ad nomen. [Eng.]

11576. Said, Edward W. «Un'opera mondana,» L'Indice dei libri del mese, 2 (February, 1993), 43. [Ital.]

[Extract from an interview of Said by Buttigieg.]

11577. Said, Edward W. «Perché ho amato il "Gattopardo",» La Repubblica (January 26, 1996). [Ital.]

11578. Said, Edward W. Cultura e imperialismo: Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell'Occidente. «Prefazione» by Joseph A. Buttigieg, «Postfazione» by Giorgio Baratta. Rome: Gamberetti, 1998. Pp. xx, 421 (passim). [Ital.]

http://www.fondazionegramsci.org/A6Web/32S1.htm

Perché ho amato il "Gattopardo"

Repubblica — 26 gennaio 1996 pagina 35 sezione: CULTURA

Ho letto Giambattista Vico per la prima volta quando ero studente nel 1958 o 1959. Prima di tutto dovrei dire che quello che mi rese Vico tanto interessante fu che lo scoprii più o meno per caso e da solo. Era appena stata pubblicata una traduzione inglese della Nuova Scienza, ma a molti altri lettori di James Joyce, Jules Michelet, Samuel Beckett e Karl Marx il suo nome e alcune delle sue idee erano già noti. Fui sopraffatto dalla mia lettura di Vico... dall' audacia del suo pensiero, dall' eccentricità quasi medievale della sua espressione, dalla sorprendente capacità di discernere sia i particolari che i contorni della lingua, della storia umana e della società. Per me Vico rappresentò tutto quello che c' era di coraggioso nella vita intellettuale, e nonostante le sue idee apparentemente conformiste sulla provvidenza divina, venne anche a rappresentare nella mia mente e nel mio lavoro una vera fonte di speranza... speranza nel lavoro e nelle possibilità dell' uomo, speranza nel senso collettivo della storia umana che, disse, era fatta da uomini e donne, speranza infine nella capacità di cambiamento nella storia umana. La cosa principale che imparai da Vico fu che la mente (o "ingenium" come la chiamava nel suo italiano neo-latino) è allo stesso tempo una protagonista nella storia, e uno strumento essenzialmente immaginativo. Per cui lo studioso o l' intellettuale usano la mente per proiettare, ri-afferrare, ri-immaginare nel presente elementi delle loro origini (ciò che chiama "nascimento"). Inoltre è la mente che rende possibile "il mondo delle nazioni": Vico ammirava Lord Bacon ma anche venerava Omero, il razionale e il poetico, i due aspetti fondamentali della mente. Il secondo pensatore italiano a cui devo molto è Antonio Gramsci. Credo di essere stato uno dei primi in America a tenere conferenze su Gramsci, e, per almeno un decennio, fra gli anni Settanta e Ottanta, fu di frequente l' argomento dei miei seminari. Il mio libro Orientalism (Orientalismo) pubblicato nel 1978 fu un tentativo di applicare le idee di Gramsci sulla società e sulla storia alla visione occidentale dell' Oriente. C' erano due o tre cose straordinarie su Gramsci, e nonostante la natura frammentaria dei suoi scritti nei Quaderni rendesse difficile desumere da essi un qualsiasi sistema, la sua intelligenza intuitiva e pronta viaggiava attraverso la società e la cultura in modo notevomente istruttivo. Vidi Gramsci come critico di Hegel e delle teorie della trascendenza storica; Gramsci non vedeva il mondo solo in termini temporali, ma geografici e territoriali. La società per lui era il risultato di varie contese sovra-terrene, in cui l' egemonia e il potere avevano bisogno di essere compresi come aspetti di una vasta interazione civile fra partiti, masse sociali, storia e intelletto. In secondo luogo, Gramsci è naturalmente il primo analista del ventesimo secolo della società che ponga gli intellettuali al centro delle sue analisi. Gramsci riteneva che la categoria includesse quasi tutti in una società moderna, ma egli la rese anche più acuta per distinguere fra diversi tipi di intellettuali, il che comprendeva non solo la sua celebrata differenziazione fra intellettuali organici e tradizionali, ma anche la sua ugualmente formidabile analisi di Benedetto Croce. L' utile distinzione fatta fra idee "dirigenti" e "subalterne" e le formazioni sociali introdusse nell' analisi della cultura una comprensione molto sottile di come opera il potere, e, ancor più importante, di come gli si possa resistere e cambiarlo. Racchiuso in questa comprensione c' è un notevole senso etico che dà scopo morale alle lotte dei combattenti sociali e degli oppositori intellettuali. In terzo luogo ho trovato in Gramsci il modo di articolare l' influenza di una storia e di una geografia su un' altra. Nato a Gerusalemme da una famiglia araba, appartenevo a quel mondo, ma anche al mondo occidentale, e più precisamente al mondo americano dove ero emigrato da studente. Mi piacesse o no, mi trovai ad essere cittadino di più di una storia, cultura, tradizione e stato. L' ultimo esempio di influsso italiano è quello di Lampedusa, di cui lessi il grande romanzo, pubblicato postumo, come l' opera culminante di una tradizione italiana di pessimismo materialistico che ha origine con Lucrezio, passa attraverso Leopardi, ed emerge ne Il Gattopardo. Lampedusa rappresenta per me un esempio importante di qualcuno fuori del tempo, quello che chiamo vecchio stile, uno che arricchisce il proprio tempo senza essere parte di esso e di conseguenza è anomalo, anacronistico, difficile. Il Principe affronta la fine della sua vita e della sua classe con un rigido atteggiamento inesorabile, che non indulge né a se stesso né agli altri. Il suo razionalismo scientifico coesiste con un senso dell' ordine patriarcale, feudale: l' ambientazione siciliana del romanzo, che è quel vero Sud di cui Gramsci aveva parlato, viene visto sia invaso dal nuovo Nord, sia dall' interno, da una nuova classe di mercanti emergenti, i quali, entrambi, rappresentano un cambiamento che ironicamente mantiene le cose come sono. La severità della visione di Lampedusa è, secondo me, il risultato di chi si sente rassegnato ad essere all' incrocio di diverse correnti e culture. E' simultaneamente mediterraneo ed europeo, vecchio e scientificamente curioso, italiano e siciliano, aristocratico e fuori dalla sua classe. Rimane tuttavia intoccato da considerazioni di avanzamento o di potere: offertogli un posto nel nuovo Senato d' Italia, cortesemente rifiuta. Quello che non si trova in Lampedusa (o nel suo Principe) è la nostalgia per il passato, o una falsa speranza per il futuro. Quando il Principe muore, Lampedusa tratta la morte proprio come un fenomeno naturale, non si deve resistere né fuggire. - di EDWARD W. SAID


11577. Said, Edward W. «Perché ho amato il "Gattopardo",» La Repubblica (January 26, 1996). [Ital.]

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1996/01/26/perche-ho-amato-il-gattopardo.html

Il nostro Said

di Giorgio Baratta

Quando è giunta la notizia della scomparsa di Edward Said, ho pensato: è mancato un compagno, e poi ho pensato: il compagno di Gramsci.

Quindici anni fa ci sentivamo tutti compagni. Oggi questa espressione sembra diventata una pura etichetta di partito. Abbiamo rimosso quello slancio, certo eccessivo, ma siamo diventati più poveri.

Ritorno su quella associazione di pensiero. Credo contenga una verità forte.

Said non era marxista, né comunista. Ma la sua impresa intellettuale e politica è una lezione di comportamento comunista, e una metafora del comunismo nel passaggio da un secolo all’altro. Sotto questo riguardo la sua “fonte” è decisamente, se non unicamente Gramsci.

L’egemonia – ha detto di sé Said – è stata come una bussola per addentrarsi nel labirinto dell’orientalismo, più tardi per stabilire connessioni e intrecci tra cultura e imperialismo. Egli ha raccolto l’eredità di Gramsci, che aveva raccolto l’eredità di Marx nel passaggio da (quel) secolo all’altro.

C’è un eccesso nella sottolineatura di questi passaggi e in queste analogie? Può darsi. Oggi, in questa epoca ipermoderna ansiosa solo di “novità”, corriamo sempre il rischio di cadere in ingenuità e corti circuiti quando, come credo si debba fare, tentiamo di appropriarsi del “presente come storia”. Ma è proprio nella necessità di questo tentativo la forza del contrappunto tra Gramsci e Said.



Gramsci guardava al mondo grande e terribile dall’isolamento del carcere fascista. Said guardava al carcere sionista in cui è confinato il suo popolo dal libero cielo del vasto mondo. Credo che la coscienza del carcere fosse profondamente radicata nel pensiero di entrambi.

Entrambi erano e si sentivano profondamente isolati, in rotta con la dirigenza dei rispettivi movimenti. Il “pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà”, a entrambi così congeniale, era una modalità di azione e reazione rispetto alla sconfitta storicamente determinata della “causa” per la quale ognuno di loro viveva. Negli ultimissimi tempi di vita si è profilata per entrambi, sulla base delle circostanze oggettive, una sensazione terribile di impotenza, forse un lampo di disperazione.

Gramsci e Said credevano nella storia, senza teologismi o teleologismi, ma come terreno fondamentale di esercizio dello spirito critico. In questo Said andava contro corrente e per questo verso era decisamente antipostmoderno.

C’è una fiducia di fondo, al fondo del pensiero di entrambi, che si riflette nel modo in cui hanno guardato all’orizzonte della storia. Gramsci pensava che la crisi organica del capitalismo – il quale accanto a tanti disastri aveva tuttavia determinato un processo di unificazione del genere umano – non potesse avere altra soluzione, se una ne aveva, che il comunismo. Said sosteneva la necessità/possibilità di una “riconciliazione” tra i popoli di Palestina e di Israele, quale sostanza profonda e duratura di un reale processo di pace.

E’ ineludibile, riflettendo su entrambi, una sensazione di discrepanza tra sofferenza presente e aspettative storiche, forse anche tra pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà. Tanto più ammirevole, perciò, nella loro opera, la puntualità razionale e precisa delle considerazioni particolari, il carattere esplorativo e sperimentale delle analisi, sondaggi, proposte, la “filologia vivente” dell’approccio alla realtà dei fatti come dei testi.

Gramsci avvertiva in sé la presenza di uno “spiritello ironico” che gli consentiva una straordinaria capacità di vincere l’angoscia e la rassegnazione. “Una certa dose di scepsi e di ironia nei confronti di sé” è stato un elemento essenziale della personalità di Said, come egli ha detto in una intervista con Joseph Buttigieg.

Entrambi erano profondamente… brechtiani. Brecht, nel Piccolo organo per il teatro, ha scritto che “la modalità più leggera di esistenza è nell’arte” e che anche il suo fruitore è “produttivo” quando riesce a tradurre nella sua “leggerezza”, e attraverso di essa rivivere criticamente , “il terrore dell’incessante trasformazione” della realtà. Vien da pensare a Gramsci che legge Dante e a Said che legge Conrad o suona Beethoven.

Said ha scritto che Gramsci gli ha additato un modo di ragionare “mondano”, che forse si potrebbe tradurre liberamente con “laico”. C’è un altro elemento però in questa espressione, che accomuna i due pensatori: uno straordinario senso dello spazio, un sentirsi intellettualmente o emotivamente sempre in viaggio lungo i territori del pianeta, e tuttavia mantenere e coltivare una grande capacità di sostare, di stare, di dimorare, cioè di amare gli altri, siano individui, popoli o culture.

Ha scritto Gramsci che “il progresso reale della civiltà avviene per la collaborazione di tutti i popoli” (quaderno 11, 48).

Questa “collaborazione di tutti i popoli” – di pari dignità e autonomia ma oggettivamente associati in una identità planetaria - è l’idea-guida della storia mondiale nella prospettiva del comunismo.

Gramsci ha una certezza: che il mondo è diventato una grande, articolata e composita ma anche oggettivamente unificata “società di massa”. Non è certo stato né il primo né il solo a pensarlo o a saperlo. Egli ne ha dato una interpretazione rivoluzionaria. Il mondo è in bilico tra rivoluzione “attiva” e “passiva”. Il comunismo, privo di garanzie vuoi teleologiche, vuoi scientifiche, è però iscritto ben saldamente nella materialità del processo storico, di cui Gramsci persegue una concezione concreta, “filologica”, cioè ricca di elementi particolari ed empirici. Egli tiene ben ferma la centralità del conflitto di classe, e quindi dell’economia, ma ha coscienza della pluralità dei livelli sia economico-sociali che geopolitici e geoculturali dell’analisi.

Il comunismo di Gramsci può essere assimilato a una concezione radicale o rivoluzionaria di democrazia. Egli ha grande considerazione delle forme, ma aborre da ogni formalismo. La democrazia, come egli la pensa, deve essere una combinazione ben riuscita di elementi formali e sostanziali, di diritti e di dati di fatto. In entrambi i casi il difficile è la giusta considerazione della identità e insieme della diversità degli esseri umani, sia come individui che come gruppi sociali. Gramsci sostiene e adopera quella che si potrebbe definire una dialettica flessibile e assolutamente aperta. “Lo stesso raggio luminoso passando per prismi diversi dà rifrazione di luce diversa”… Occorre “trovare la reale identità sotto l’apparente differenziazione e contraddizione, e trovare la sostanziale diversità sotto l’apparente identità” (Quaderno 24, 3).

Non c’è identità nella diversità. C’è un rinviarsi reciproco – una traducibilità – dall’una all’altra, che però lascia affatto indeterminata la natura della loro relazione, il senso “ultimo” di questo nesso. L’unità è un’altalena tra l’uno e l’altro polo.





Per usare un’espressione cara a Franco Fortini, si dovrebbe dire che la storia ha costituito una “feroce smentita” dell’idea o ideale gramsciano della “collaborazione di tutti i popoli”. Sarebbe crudele dire - ma è una triste realtà - che i popoli nel Novecento hanno mostrato di saper collaborare soprattutto nel massacrarsi a vicenda. Che fare?

Una soluzione può essere quella di ragionare “a futura memoria”: analizzare e denunciare l’esistente e nello stesso tempo fare come se “la collaborazione di tutti i popoli”, nel senso civile e progressivo del termine, fosse possibile: un modo semplicistico e utopico di praticare il “pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà”.

Said ha tentato una strada diversa, che comporta la rinuncia – nel contesto della sconfitta epocale - a un senso forte di comunismo, ma che finisce per conservarne, anzi svilupparne e arricchirne l’istanza etico-politica, fondata sulla trasformazione rivoluzionaria del senso comune e su quella tensione di identità e diversità che caratterizza l'essenziale nel rapporto interumano.

Said si riferisce a Gramsci e rilancia questa tensione sostituendo però alla “traducibilità” gramsciana la sua idea di “contrappunto”. La “traduzione” o “traducibilità” ha come sfondo, come orizzonte, l’unità, in senso forte: “proletari di tutti i Paesi, unitevi!” Il “contrappunto” ha un orizzonte più sobrio e meno esaltante, ma probabilmente più concreto: l’umanesimo della convivenza, sul quale ha scritto ultimamente pagine di grande spessore nella nuova Prefazione a Orientalismo.

“Storie che si intrecciano, territori che si sovrappongono”: è il motto, o idea-guida del grande affresco di Cultura e imperialismo, che costruisce un discorso sostanzialmente privo di utopie ma ricco di profondi impulsi etico-politici derivanti dalla constatazione che la “collaborazione di tutti i popoli” prima ancora che un’idea politica, è un dato di fatto, espressione paradossale ma oggettiva della stessa politica imperiale che ha avvicinato, intrecciato, sovrapposto e quindi a suo modo costretto a cooperare popoli e culture differenti. È in questo orizzonte che va intesa e valutata la irriducibile battaglia intellettualmente e politicamente perseguita da Said per una soluzione binazionale della questione palestinese-israeliana.

Il “contrappunto” di Said implica due o più linee che si incontrano, “luci diverse”, se vogliamo, che però non sono in nessun caso riconducibili all’identità di un raggio che le preceda e ne sia quindi il presupposto. L’autonomia delle linee è radicale, perché senza di essa non ci potrebbe essere contrappunto. (Avviene qualcosa di analogo con un’altra celebre metafora musicale, che va nella stessa direzione del contrappunto di Said: la “polifonia” di cui parla Bachtin, ad es. nella sua intepretazione di Dostoevskji). Non ci sono un centro e tante periferie, ovvero quel centro c’è stato e c’è ancora: l’imperialismo, che sempre vede uno o più Paesi e organismi economico-sociali reggere le fila del mondo intero. Ma c’è, ci può, ci deve essere un centro dal punto di vista di una alternativa culturale e politica all’imperialismo? Ovvero l’alternativa è proprio l’abolizione, il superamento del fatto o della necessità di un “centro”?

Con questa domanda, che potrebbe mettere in modo un dibattito o una ricerca, diamo il nostro addio a Edward W. Said, che ci piace ricordare “sempre nel posto giusto”.

http://www.gramscitalia.it/saidbaratta.htm

domenica 6 dicembre 2009

Antropologia come critica culturale

Di George E. Marcus, Michael M. Fischer

Vedi da pagina 40

http://books.google.it/books?id=bni1GFNLJZsC&printsec=frontcover#v=onepage&q=&f=false

Gli intellettuali organici / di Antonio Gramsci

1) Ogni gruppo sociale, nascendo sul terreno originario di una funzione essenziale nel mondo della produzione economica, si crea insieme, organicamente, uno o piú ceti di intellettuali che gli dànno omogeneità e consapevolezza della propria funzione non solo nel campo economico, ma anche in quello sociale e politico: l’imprenditore capitalistico crea con sé il tecnico dell’industria, lo scienziato dell’economia politica, l’organizzazione di una nuova cultura, di un nuovo diritto, ecc. ecc. Occorre notare il fatto che l’imprenditore rappresenta una elaborazione sociale superiore, già caratterizzata da una certa capacità dirigente e tecnica (cioè intellettuale): egli deve avere una certa capacità tecnica, oltre che nella sfera circoscritta della sua attività e della sua iniziativa, anche in altre sfere, almeno in quelle piú vicine alla produzione economica ( deve essere un organizzatore di masse d’uomini; deve essere un organizzatore della "fiducia" dei risparmiatori nella sua azienda, dei compratori della sua merce ecc.).

Se non tutti gli imprenditori, almeno una élite di essi deve avere una capacità di organizzatore della società in generale, in tutto il suo complesso organismo di servizi, fino all’organismo statale, per la necessità di creare le condizioni piú favorevoli all’espansione della propria classe - o deve possedere per lo meno la capacità di scegliere i "commessi" (impiegati specializzati) cui affidare questa attività organizzatrice dei rapporti generali esterni all’azienda. Si può osservare che gli intellettuali "organici" che ogni nuova classe crea con se stessa ed elabora nel suo sviluppo progressivo, sono per lo piú "specializzazioni" di aspetti parziali dell’attività primitiva del tipo sociale nuovo che la nuova classe ha messo in luce.

[...]

2) Ma ogni gruppo sociale "essenziale" emergendo alla storia dalla precedente struttura economica e come espressione di un suo sviluppo (di questa struttura), ha trovato, almeno nella storia finora svoltasi, categorie intellettuali preesistenti e che anzi apparivano come rappresentanti una continuità storica ininterrotta anche dai piú complicati e radicali mutamenti delle forme sociali e politiche.

La piú tipica di queste categorie intellettuali è quella degli ecclesiastici, monopolizzatori per lungo tempo (per un’intera fase storica che anzi da questo monopolio è in parte caratterizzata) di alcuni servizi importanti: l’ideologia religiosa cioè la filosofia e la scienza dell’epoca, con la scuola, l’istruzione, la morale, la giustizia, la beneficenza, l’assistenza ecc. La categoria degli ecclesiastici può essere considerata la categoria intellettuale organicamente legata all’aristocrazia fondiaria: era equiparata giuridicamente all’aristocrazia, con cui divideva l’esercizio della proprietà feudale della terra e l’uso dei privilegi statali legati alla proprietà. Ma il monopolio delle superstrutture da parte degli ecclesiastici non è stato esercitato senza lotta e limitazioni, e quindi si è avuto il nascere, in varie forme (da ricercare e studiare concretamente), di altre categorie, favorite e ingrandite dal rafforzarsi del potere centrale del monarca, fino all’assolutismo. Cosí si viene formando l’aristocrazia della toga, con suoi propri privilegi, un ceto di amministratori, ecc.; scienziati, teorici, filosofi non ecclesiastici, ecc.

Siccome queste varie categorie di intellettuali tradizionali sentono con "spirito di corpo" la loro ininterrotta continuità storica e la loro "qualifica", cosí essi pongono se stessi come autonomi e indipendenti dal gruppo sociale dominante. Questa auto-posizione non è senza conseguenze nel campo ideologico e politico, conseguenze di vasta portata: tutta la filosofia idealista si può facilmente connettere con questa posizione assunta dal complesso sociale degli intellettuali e si può definire l’espressione di questa utopia sociale per cui gli intellettuali si credono "indipendenti", autonomi, rivestiti di caratteri loro propri, ecc.

A. Gramsci, La formazione degli intellettuali (Q. XXIX) - in: A. Gramsci, Gli intellettuali, Editori Riuniti, Roma, 1971, pagg. 13-16

http://www.girodivite.it/Gli-intellettuali-organici-di.html

domenica 29 novembre 2009

Recensione a Giorgio Baratta

Recensione a Giorgio Baratta, Antonio Gramsci in contrappunto. Dialoghi col presente

Roma, Carocci, 2007, pp. 301, € 22,50

Lothar Knapp

Il libro di Giorgio Baratta ha il merito di aprire nuove prospettive alla comprensione di ampie parti dei Quaderni del carcere in una lettura parallela con le Lettere dal carcere. L’aspetto innovativo consiste prevalentemente nell’introduzione di un concetto mutuato dall’ambito musicale che, nella sua applicazione alla comprensione del testo, conferisce a quest’ultimo un’ombra di musicalità non inappropriata alla fluidità dei concetti nel linguaggio gramsciano. Si tratta del concetto di contrappunto, ripreso dallo storico della cultura e studioso di Gramsci Edward W. Said[1], che Baratta trasferisce dall’ambito della storia della musica a quello della storia concettuale del lessico politico di Gramsci, gettando in tal modo le basi per una rinnovata comprensione del testo gramsciano in alcuni suoi aspetti. Già in Said ritroviamo l’utilizzo della categoria di contrappunto in senso traslato, in una applicazione a testi confrontati tra loro e il cui sviluppo viene presentato al lettore in maniera contrappuntistica, analogamente all’andamento polifonico nella musica; vengono, per esempio, confrontate un’opera riconosciuta appartenente alla letteratura alta della metropoli in ambito anglosassone con un’opera proveniente dalla rispettiva periferia delle subculture anglofoni, capace di illuminare la prima di una luce critica. Questo confronto integra anche una componente spaziale nella funzione del contrappunto, e cioè la dialettica di centro e periferia. Per Said il centro sta ad indicare il monopolio letterario angloamericano, la periferia la produzione dei paesi anglofoni che l’autore analizza in Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’Occidente; in Baratta questi concetti denotano inoltre gli opposti di cultura alta e cultura popolare, posizione dominante e subalterna in senso egemonico. Essi costituiscono gli strumenti analitici della teoria del contrappunto, sulla cui base l’autore auspica di poter presentare una nuova visione dei testi gramsciani. Bisogna aggiungere che questi concetti-chiave permettono all’autore di allargare l’ambito di ricerca degli studi gramsciani al di là dell’Europa, anzitutto al continente sudamericano, come documentato nella quarta parte del libro, intitolata Transiti e dimore.

L’approccio analitico del libro, il suo fondamento metodologico, consiste dunque nella messa in parallelo di storia della musica e storia sociale, di dati dello sviluppo delle forme musicali e della corrispondente formazione storica di condizioni politico-sociali. Per dimostrare questo l’autore risale a ritroso nella storia seguendo lo sviluppo delle forme musicali dall’epoca barocca all’età classica, e ancora sino alla musica moderna; egli individua come elemento formativo del barocco l’arte della fuga, nella sua forma compiuta in Bach, alla quale si sostituisce in epoca classica la forma musicale caratteristica della sonata, mentre con la fine della fase classica ha luogo una specie di ritorno ad un principio antico della musica, al contrappunto. Sulla scia di Said e del suo dialogo con Barenboim[2], Baratta si richiama ad Adorno e ai suoi scritti musicali[3], per integrare questo sviluppo delle forme nella sua ricerca. Culmine di uno sviluppo di 350 anni di tonalità, la forma-sonata si è imposta come forma dominante dell’espressione musicale, ricorda l’autore. «Da qui il “latente contenutismo” di una forma che è sintesi di forma e contenuto, o meglio rappresenta il dispiegamento della tensione tra forma e contenuto in vista della loro conciliazione, espressa dal classicismo di Haydn, Mozart e Beethoven» (p. 18). Con Adorno, l’autore intende per forma «sonata» l’espressione dell’«armonia di interesse individuale e interesse collettivo teorizzato dal liberalismo», come scrive Adorno, alludendo a un parallelismo tra Beethoven e Hegel, «tra forma “sonata” e dialettica, tra lingua musicale e linguaggio della modernità» (18). Di fronte ad una fase della musica classica giunta ormai al tramonto, Adorno si è chiesto che cosa potrebbe seguire alla morte del vecchio, scrive Baratta, e questa domanda equivarrebbe all’affermazione di Gramsci «che il vecchio muore e il nuovo non può nascere»; non essendo in vista alcuna «nuova totalità formale», «capace di ridurre a unità gli elementi diversificati della composizione», è sottratto ogni fondamento ad una «universale relazione reciproca delle voci nella loro molteplicità» e si spiega così il ritorno al «predominio radicale del contrappunto» (19). Su questo si fonda «l’organizzazione contrappuntistica della “neue Musik”», la polifonia delle voci, non più capace di ricomporre gli elementi diversificati in una sintesi, ma che riflette piuttosto una costituzione sociale caratterizzata da una crescente destrutturazione (19-20).

A questo punto, l’approccio di Said offre la possibilità di una nuova concezione della teoria del contrappunto da sperimentare nella sua applicazione all’interpretazione del testo letterario, prosegue Giorgio Baratta. Si pone dunque la questione in che modo il principio del contrappunto possa essere in grado di creare una nuova unità della diversità o addirittura degli elementi contraddittori, e questa sarebbe assicurata dal fatto – ancora derivato da Adorno – che il fulcro dell’interesse si sposta dal centro del fenomeno alla sua periferia[4]. Alle periferie subalterne verrebbe in tal modo attribuita la stessa rilevanza che al centro dominante; centro e periferia si ritroverebbero così posti in una relazione dialettica[5]. Ci si chiede allora quale sia il rapporto tra dialettica e contrappunto o quale dovrebbe essere e se quest’ultimo smorzi la prima o addirittura si sostituisca ad essa, come pare a volte. «Il Novecento appare caratterizzato dalla disgregazione della dialettica, perlomeno della vecchia dialettica (ma ce n’è un’altra?)» (18-19). Ritorneremo più avanti su questo punto.

L’autentico campo di ricerca intorno al contrappunto in relazione al rapporto tra alta cultura e cultura popolare sta nella costellazione concettuale umanesimo, egemonia e democrazia, termini che descrivono lo spazio sociale nel quale ha luogo la mediazione tra cultura dominante e cultura subalterna e nel quale la cultura subalterna può aspirare a una posizione egemonica rispetto alla visione del mondo predominante sinora; tale egemonia inaugurerebbe una fase della democrazia non più dominata dal centro e nella quale anche l’egemonia nel senso del centralismo democratico risulterebbe ormai superata. Metodologicamente, queste categorie vengono affrontate tramite i concetti di dialettica, traducibilità e contrappunto, presentati nell’Introduzione.

Quel che l’autore chiama filologia vivente (45) è l’insieme degli strumenti e delle operazioni linguistiche e gnoseologiche che caratterizzano la catena di concetti presi in considerazione. Per quanto riguarda il rapporto tra dialettica e contrappunto si pone però il problema della sovrapposizione, a tratti anche dell’identificazione dei due concetti, con il conseguente sfumarsi dei confini tra i due ambiti concettuali. Nel contesto considerato sin qui, la necessità della dialettica (sotto l’aspetto economico, ma anche territoriale) è rimasta incontestata, ma in altri luoghi del libro (come anche nell’Introduzione) l’autore accenna ad una disgregazione della dialettica nel corso del ventesimo secolo (18), un pensiero ripreso e ampiamente discusso nel paragrafo 8.5. dal titolo Contrappunto.

All’inizio del ventunesimo secolo la situazione è oramai diversa ma non al punto che sia possibile abbandonare la teoria delle contraddizioni o intravedere una qualche forma di superamento (156). Il problema è un altro: la «teoria delle contraddizioni» nella versione moderna, gramsciana, richiede un’integrazione o un confronto, che le consenta il transito a una forma-pensiero non più viziata dalla tradizione dialettica in senso stretto, universalistico-eurocentrica, hegeliana-beethoveniana. Avviene uno slittamento: la teoria dialettica delle contraddizioni si avvicina alla «teoria del contrappunto» nel senso di Said. Assieme al preteso «universalismo» della vecchia dialettica verrebbe a cadere anche il suo perdurante legame con l’idealismo filosofico: «L’ipotesi […] è che la dialettica del contrappunto […] disegnando lo spazio di un dialogo ideale tra Gramsci e Said, sia in grado di riconsiderare seriamente – nel senso di liquidarlo – il residuo di universalismo-idealismo della vecchia dialettica[6]». Si affaccia la necessità di una «metodologia che rinunci sistematicamente a ogni generalizzazione (di specie, di genere, di classe, ecc.) ricercando – a partire dai gruppi, sottogruppi, individui –le relazioni, gli intrecci, le integrazioni via via piú complesse alle quali obbedisce la logica molecolare del metodo gramsciano». Sta qui «la potenzialità di senso immanente al “contrappunto”», sottolinea l’autore (157-58).

Occorre qui compiere, gramscianamente, un passo in avanti: al nesso dialettica-contrappunto si annoda la rete traduzione-traducibilità. Fondamentale per la teoria della traduzione si rivela una sorta di dialettica dei concetti da intendersi nel senso di stratificazioni contrappuntistiche di senso. Si apre qui un complesso terreno di indagine che è possibile solo sfiorare. La terminologia puramente teorica si coniuga con le questioni di filosofia politica. L’impressione forse più diretta data dalla percezione di un tale terreno si ha con la metafora gramsciana del raggio e dei prismi: «lo stesso raggio luminoso passando per prismi diversi dà rifrazioni di luce diversa». Secondo Gramsci affiora qui «la più delicata, incompresa eppure essenziale dote del critico delle idee e dello storico dello sviluppo sociale» e cioè: l’attitudine a «trovare la reale identità sotto l’apparente differenziazione e contraddizione, e trovare la sostanziale diversità sotto l’apparente identità» (22). Baratta: «È il movimento della realtà a determinare se e quando i molti (diversi) si strutturino secondo contraddizioni, che danno luogo a conflitti, anche violenti, o secondo differenze, passibili di competizione egemonica, perlopiù (ma non solo) pacifica» (23). La “diversità”, se e in quanto si presenta come espressione di contraddizioni, non può venir né risolta né integrata nella dimensione dell’egemonico, mentre questa possibilità esiste per le differenze. Questa distinzione non è fissa, ma mobile. Le contraddizioni possono essere o restare antagonistiche, o diventare (come diceva Mao Tse Dong) “contraddizioni in seno al popolo”, cioè, in linguaggio a noi più vicino: differenze. Oper qui la teoria della traduzione. Secondo Baratta: «Gramsci ha tradotto la dialettica, un suo aspetto, nel linguaggio dell’egemonia». Lo scopo perseguito con questa traduzione sta nell’orientamento in direzione della lotta per l’affermazione della democrazia, o, detto diversamente: «La traducibilità delle contraddizioni nella lotta egemonica è il fondamento della democrazia» (198).

Anche in quest’ottica la democrazia viene caratterizzata come qualcosa che può risorgere solo a partire dall’egemonia delle classi subalterne. Aver mostrato queste prospettive storiche dal punto di vista di un Gramsci in contrappunto è il merito del nuovo libro di Giorgio Baratta.



(Rivista on-line “TestoeSenso”, traduzione di Leonie Schröder)



[1] E.W. Said, Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’Occidente.Gamberetti, Roma 1998 (ed. orig. Culture and Imperialism. New York 1993) nonché E.W. Said, Umanesimo e critica democratica. Cinque lezioni. Il Saggiatore, Milano 2007 (ed. orig. Humanism and Democratique Criricism. New York 2004).

[2] D. Barenboim, E. W. Said, Paralleli e paradossi. Pensieri sulla musica, la politica e la società. Milano 2004 (ed. orig.: Parallels and Paradoxes. Explorations in Music and Society. New York 2002).

[3] T.W. Adorno, Il problema della forma nella nuova musica, in Id., Immagini dialettiche. Scritti musicali, 1955-65, a cura di G. Borio, Einaudi, Torino 2004.

[4] Cfr. Adorno, La funzione del contrappunto nella nuova musica, in Immagini dialettiche, cit.

[5] Cfr. Said Orientalismo, pp. 20 s.

[6] A tale proposito è determinante il riferimento ad Alberto Mario Cirese nel capitolo 8 del libro di Baratta intitolato “Folclore e filosofia”.

http://www.gramscitalia.it/knapp.htm

http://www.testoesenso.it/assets/download/press/numero9/noteerecensioni/Lothar_Knapp_Recensione_Baratta_it.pdf

Intervista a Giorgio Baratta

Filosofia in contrappunto
di Sandra Dugo

1. Sottolineando il “carattere dialogico” del pensiero di Gramsci, Lei ne propone uno sviluppo nella direzione di quello che Edward Said chiamava il “contrappunto” tra culture diverse. Lei sostiene la necessità di far viaggiare Gramsci, più in generale la cultura europea “fuori dell’Europa”. Si tratta, considerando insieme questi due motivi, di una stessa esigenza?

Valentino Gerratana ha per primo evidenziato la presenza ideale di un interlocutore attivo nei monologhi carcerari dei Quaderni: un tema ripreso e sviluppato da Francisco Buey. A livello teorico questo stile dialogico del pensiero si esprime nella teoria della “traducibilità” dei linguaggi culturali e scientifici, che sempre più intriga ma fa anche impazzire gli studiosi di Gramsci. Sia “dialogo” che “traducibilità” in realtà travalicano l’ambito del discorso, scritto o parlato. Forse non sono che metafore di ciò che sta soprattutto a cuore a Gramsci: l’unificazione, in primo luogo culturale, del genere umano, che egli vede iscritta oggettivamente come tendenza inarrestabile nel processo storico, e che si manifesta in modo contraddittorio. Americanismo e imperialismo, per un verso, comunismo e nuovo umanesimo o nuovo senso comune, per altro verso, sono le due facce opposte e conflittuali di questa tendenza. Da che cosa deriva e in che cosa essa consiste? Con quali strumenti teorici e politici la si deve affrontare da sinistra? Alla prima domanda Gramsci risponde con un grandioso sforzo analitico ed empirico di conoscenza, che egli chiama “filologia vivente” della realtà, cioè l’esame delle capillari, complesse connessioni e relazionalità che tessono la trama della contemporaneità (nazionale-internazionale). Alla scarsità di informazioni e strumenti egli reagisce attivando la sua profonda cultura storica e sociale. La seconda domanda lo stimola a dispiegare in molteplici direzioni la categoria di “egemonia” che esprime un’idea di politica decisamente innovativa rispetto alla tradizione marxista e socialista.
Edward Said non ha avuto modo di studiare a fondo l’opera di Gramsci. Ne ha messo però a frutto alcuni motivi essenziali, a cominciare proprio dal concetto di unificazione del genere umano che avrebbe spinto Gramsci ad approfondire la dimensione spaziale-territoriale dell’analisi, in senso sia economico-sociale che politico-culturale, fino a gettare le basi di un pensiero eminentemente, strutturalmente “comparativo”. Gramsci attraversa e indaga una terra nuova, fonte insieme di unità e di conflitto, che nasce, per usare le parole di Gerratana, dalla confluenza di “internazionalismo nella vita economica e nazionalismo nella vita statale”. Da questo osservatorio, che mostra processi in atto di confluenze e sconfinamenti, Gramsci ci aiuta, secondo Said, a spingere la comparazione verso un modello diverso da quello goethiano-auerbachiano, a Gramsci stesso non ancora chiaramente estraneo, che presuppone un centro del mondo (l’Europa o l’Occidente).
Nasce da qui, dall’esigenza di una rinnovata metodologia comparativa il contrappunto, leit-motiv dell’opera di Said, emblematicamente espresso dal pensiero “storie che si intrecciano, territori che si sovrappongono”. Esso rappresenta un’estensione, sotto diversi aspetti, un superamento dell’unità-traducibilità con cui Gramsci ha guardato agli orizzonti di civiltà del “mondo grande e terribile e complicato”. Said sottolinea che la modalità gramsciana di analisi della relazione Nord-Sud, già a livello nazionale, rappresenta un’anticipazione dell’atteggiamento contrappuntistico con cui andrebbe affrontata, sia nello studio del passato, sia nella politica del presente, l’imbricazione nel mondo globalizzato tra unità e conflitto.
La nozione di “contrappunto” è non a caso una metafora musicale, che si contrappone agli aspetti centralistici ed etnocentrici della dialettica di tipo hegeliano, esprimibile secondo Said con una diversa metafora musicale, la forma-sonata.
Anche Gramsci, così attento alle vicissitudini della ricerca filosofica e scientifica, in molte elaborazioni rivela la presenza di una spiccata sensibilità artistica (oltre che antropologica). Non va trascurata questa dimensione latamente estetico-letteraria dell’opera di Gramsci per spiegare la sua fortuna pressoché planetaria (si pensi agli Stati Uniti o al Brasile o all’India, per fare solo alcuni esempi). Non siamo noi a far viaggiare il pensiero di Gramsci fuori dell’Europa: il suo contrappunto con il resto del mondo nasce dalle cose.

2. Nel Suo libro Le rose e i quaderni Lei ricorda che Gramsci, con riferimento alla gestazione di un “uomo nuovo”, auspicava con qualche ironia l’avvento di un “Leonardo da Vinci divenuto uomo-massa pur mantenendo le sue caratteristiche individuali”. Nei suoi studi su Leonardo Lei ha rivendicato, più che l’universalità, la “parzialità universale” di questo intellettuale-artista “pre-moderno”. Qual è il senso di questa espressione? Come può un pre-moderno diventare modello di personalità per la società di massa? Quale linea di continuità si può tracciare tra Leonardo e Gramsci?

Mi consenta, in un primo momento, di ampliare ulteriormente il quadro.
Cesare Luporini ha studiato, nella sua ricerca sulla storia della cultura italiana, tre autori collegati, se non altro, da una prosa frammentaria, aliena dalla forma-libro: Leonardo, Leopardi, Gramsci. Varrebbe la pena, credo, interrogarsi su una possibile linea di pensiero comune, nonostante le distanze in parte abissali, a questi tre intellettuali-artisti, interpreti con diverse modalità della necessità di una “transizione” a una forma diversa di civiltà. Tutti e tre, fortemente ancorati alla realtà rispettivamente scientifico e artistica, poetico-letteraria, politica e culturale del proprio tempo, manifestano rispetto ad esso una singolare inattualità, che li proietta verso il futuro. Gramsci stesso ha evidenziato con forza questo aspetto a proposito di Leopardi (si veda la lettera a Tania del 5 settembre 1932).
Per quanto riguarda, più specificamente, il rapporto Leonardo-Gramsci, vorrei osservare che il pensiero da Lei citato da una lettera a Giulia va, per un verso, inquadrato nell’ambito della metafora-Rinascimento con la quale Gramsci sottolinea il ruolo decisivo della individualità nel processo di costituzione di una “coscienza collettiva” capace di promuovere un “ordine nuovo” nella società di massa; per altro verso va interpretato a partire dall’istanza tecnico-scientifica che, secondo Gramsci, modifica fortemente i punti di riferimento marxiani nella considerazione interculturale del processo rivoluzionario. Marx aveva individuato nell’intreccio tra filosofia tedesca, politica francese ed economia inglese il laboratorio della rivoluzione. Gramsci scrive, immediatamente prima della frase citata, che “l’uomo moderno dovrebbe essere una sintesi di quelli che vengono… ipostatizzati come caratteri nazionali: l’ingegnere americano, il filosofo tedesco, il politico francese, ricreando, per così dire, l’uomo italiano del Rinascimento, il tipo moderno di Leonardo da Vinci divenuto uomo-massa, ecc.”. Siamo nel cuore del problema della traducibilità dei linguaggi, rispetto al quale il genio relazionale di Leonardo rappresenta un modello, anche agli occhi di Gramsci, pressoché ineguagliabile.
Ancora qualche considerazione sulla questione della modernità. Parlare di “premodernità” significa rifarsi alle intuizioni utopiche, in qualche modo organicistiche, del giovanile “programma universale” (come lo chiamava Chastel) di Leonardo, il quale realizza le sue più importanti acquisizioni dal punto di vista scientifico in contrasto con quel programma, dopo aver preso coscienza del suo fallimento. Ma alcune delle originarie intuizioni restano costitutive della “mente di Leonardo”, per riprendere il titolo del libro troppo poco studiato di Luporini. Penso alla non-separazione tra senso e intelletto e tra qualità primarie e qualità secondarie delle cose, come anche alla non separazione tra scienza e arte, più in generale alla connessione tra ricerca specialistica e orizzonte cosmologico unitario, ciò che impedisce a Leonardo di avvicinarsi a quella divisione del lavoro e del sapere sulla quale stava cominciando a edificarsi la società moderna.
La mia perplessità a proposito della nozione di “post-moderno” dipende fondamentalmente dalla convinzione che la cultura dei nostri tempi in Occidente, oltre ad alcuni fenomeni che potrebbero rendere accettabile quella nozione, sia caratterizzata fortemente da un processo di acutizzazione di quella stessa “divisione del lavoro” e del sapere, caratteristica della modernità, che oggi convive in modi drammaticamente contradditori con le istanze, anche se perversamente, relazionali e unificatrici della globalizzazione. Di qui l’uso del termine “ipermoderno”.
Se non vogliamo arrenderci all’evidenza di quel calderone irrazionale-multimediale che esprime oggi una capacità impetuosa di egemonia, dovremmo rivendicare, correndo il rischio del paradosso, l’attualità sia di Gramsci che di Leonardo: non già in antitesi ma in sintonia con la centralità della ricerca tecnico-scientifica, oggi messa in discussione da varie direzioni di fuga imboccate dal pensiero postmoderno. Sia Leonardo che Gramsci erano certamente, oltre che maestri di razionalità, anche creatori di fantasmi, frutti della loro immaginazione creativa. Ma la concretezza, la laicità, l’avversione a ogni evasione fideistica o mistica erano qualità intrinseche del loro modo di sentire, di pensare e di immaginare. Entrambi, ognuno nel suo spaziotempo, erano, avrebbe detto Brecht, figli dello spirito scientifico.

3. In un recente convegno da Lei ha organizzato il 22 febbraio 2005 presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, è emersa la proposta di un “umanesimo della convivenza”, ispirato al dialogo tra Said e Gramsci, orizzonte di “impegno” degli intellettuali e delle culture di tutto il mondo contro l’ideologia della guerra quale soluzione dei conflitti. Che cosa intende per “convivenza”? Perché riprendere una categoria che a molti appare obsoleta quale “umanesimo”?

Cultura e imperialismo, pubblicato da Gamberetti nel 1998 - un libro che non ha avuto la fortuna che merita – illumina da un punto di vista critico-letterario la trama dell’originale, contrastata posizione di pensiero che Edward Said ha assunto nei confronti dell’universo geopolitico, con impegno diretto sulla questione palestinese, ma con sguardo aperto alle lotte di potere e di egemonia in tante parti del mondo. Estremamente attento alle tragiche ma a tratti anche luminose vicende africane della seconda metà del Novecento, egli ha ricercato in personalità sia del mondo intellettuale che politico, come Fanon e Mandela, la fonte di un atteggiamento di ampio respiro, scevro da pregiudizi, che lo ha portato ad assumere tesi decisamente controcorrente rispetto alla complessiva dialettica politica palestinese, pur godendo di riconoscimento e affetto anche in larghi strati popolari.
Ho ritenuto necessario tratteggiare rapidamente alcuni aspetti della personalità di Said perché è da lui, nel contrappunto con Gramsci, che ricavo il filorosso di un umanesimo della convivenza.
Said si è spinto sino a schierarsi per uno Stato unitario con Israele, contro il riconoscimento di uno Stato autonomo palestinese. Il suo rifiuto di ogni forma anche embrionale di odio razziale o di intolleranza religiosa lo portava non solo a lottare contro l’antisemitismo di molti palestinesi, simmetrico all’antiarabismo di molti israeliani, ma a ritenere altresì che solo la riconciliazione, e perciò una positiva e consapevole convivenza tra gruppi sociali etnicamente e culturalmente diversi, all’interno di un organismo statuale comune, potrebbe assicurare un avvenire di pace e di stabilità a un territorio tanto martoriato. Da questo punto di vista Said ha proposto una soluzione molto avanzata a una problematica sulla quale si è incagliata gran parte della storia del movimento operaio internazionale, e cioè il rapporto tra questione sociale e questione nazionale.
Umanesimo, come sappiamo da Gramsci, è una categoria per antonomasia ambivalente. C’è stato, e c’è, l’umanesimo del vir, elitario e politicamente evasivo, che si è affermato all’epoca del Rinascimento italiano, e c’è quello dello homo, rivolto a tutte e a tutti, abbozzato nella stessa Italia durante il periodo comunale, poi sconfitto, che ha espresso tutta la sua energia, anche se egemonizzata dalla parzialità borghese, con l’Illuminismo francese.
In senso generale umanesimo è sinonimo di immanentismo e quindi di opposizione per lo meno tendenziale a ogni tipo di trascendenza, e di laicismo.
Quando Gerratana definiva Gramsci un comunista laico, esprimeva un giudizio che, rispetto a interi periodi e correnti del movimento socialista, suona quasi come un ossimoro! Oggi il valore insopprimibile di un atteggiamento laico sta nel suo carattere di avversione al fondamentalismo, sotto qualsiasi veste, molto spesso nascosta, esso si presenti.
Il carattere forse più delicato di un possibile rilancio dell’umanesimo, perché ha a che fare con una intrinseca contraddizione, è la sua vicinanza all’antropocentrismo. Ritengo che lo stesso Gramsci, con la sua insistenza sulla necessità di coniugare la storia con la natura, e quindi con la scienza, la filosofia e la politica con lo specialismo, e quindi con la tecnica, abbia creato degli antidoti a quella vicinanza. Bene hanno fatto, credo, Negri e Hardt in Impero a sottolineare una linea di pensiero, da Spinoza ad Althusser, che delineerebbe ciò che essi paradossalmente chiamano (ma tutto Impero è ricco di paradossi, a volte salutari) un “umanesimo antiumanista”.
In un libretto postumo, concepito nella temperie che lo ha indotto a scrivere una nuova prefazione a Mimesis di Auerbach - Humanism and democratic criticism - Said ha riproposto le molteplici sfaccettature dell’ambivalenza dell’umanesimo, fino a mostrare la presenza specifica e certo ingombrante di un umanesimo americano, o militare, o – come è più ovvio – etnocentrico, ecc. Said ha tuttavia fornito la chiave per cogliere l’estrema attualità, e insieme la profonda verità storica, dell’umanesimo. Questa chiave sta nel nesso strettissimo tra filologia e umanesimo (ciò che nuovamente ci riporta a Gramsci: abbiamo già accennato alla “filologia vivente”).
Said ha rivendicato l’origine araba, ancor prima che europea, dell’approccio filologico ai testi, ma anche lo storico intreccio tra le due civiltà, che esso storicamente rappresenta. Filologia significa rispetto per l’autenticità e la verità di un testo, e quindi simpatia profonda (per non dire amore) per le parole, intese quali individui che vivono e operano in un testo, qualsiasi esso sia, membri di un organismo perciò, che va riconosciuto e conosciuto per quello che realmente è, prima di poter venir criticato, respinto o utilizzato.
In un’accezione larghissima e fondante, filologia significa, o implica laicismo, tolleranza, antifondamentalismo, spirito scientifico.
Prima di essere stato tematizzato, assieme a Gerardo Marotta, Mario Martone, Patrizio Esposito, Iain Chambers, Pasquale Voza, Lidia Curti, ed altri nel convegno di quest’anno a Napoli, l’espressione Umanesimo della convivenza (Humanismus des Zusammennlebens) fu da me proposta presso l’Università di Bremen, assieme a Jörg Sandkühler, in una iniziativa del Network Immaginare l’Europa nel 1999.

4. Negli sviluppi più recenti del Network Immaginare l’Europa, da Lei ideato in collaborazione con Antonio Ruberti, Étienne Balibar, Luciana Castellina e poi Renzo Imbeni negli anni Novanta, si auspica una capacità/volontà del Vecchio Continente di riproporre a livello mondiale la centralità della lotta egemonica, e quindi culturale, rispetto a una politica di pura potenza come quella affermata dal neoamericanismo statunitense. Non avverte qui il rischio di un’ideologia “intellettualistica” o di un rifugio nell’utopia?

Nel 1991 costituimmo, tra Colleghi di diverse Università europee, con la collaborazione di Roberto Barzanti e più tardi di Luciana Castellina (entrambi, successivamente, vicepresidenti del Parlamento Europeo) l’Associazione di docenti Socrates con sede principale presso l’Ateneo di Urbino, il cui Rettore era Carlo Bo. L’Associazione accompagnò quell’anno la nascita di un progetto Erasmus di “studi filosofici, storico-sociali e intermediali” cui demmo il nome Immaginare l’Europa. Antonio Ruberti chiamò poi Socrates il programma comunitario per l’Università (come Leonardo quello per la formazione professionale). Nel 1996 Immaginare l’Europa divenne una Rete Tematica del Programma Socrates. Il logo della Rete, ideato insieme a Edoardo Sanguineti e a Carlo Predetti, fu un SoLe rinascimentale, in omaggio ai due Programmi comunitari. Fu Ruberti a suggerire, e discutere insieme con noi, alcuni temi portanti di Immaginare l’Europa e la sua trasformazione in un Network of Universities, Institutes and Research Centers, tuttora esistente. Organo del Network è stato l’Annuario elettronico ImagEuro diretto da Paolo Andruccioli, molto apprezzato da Renzo Imbeni, anche lui vicepresidente del Parlamento europeo, che dopo Ruberti divenne un ispiratore, oltre che un amico di Immaginare l’Europa. (Spero che l’Annuario, tuttora in rete – www.imageuro.net - possa presto riprendere la sua attività).
Nel 1996, presso la Protomoteca del Campidoglio, inaugurando le attività della Rete Tematica, un dialogo tra il politico Antonio Ruberti e il filosofo Étienne Balibar ebbe come titolo Immaginare l’Europa: una nuova cittadinanza. Furono gettate in quella occasione le linee di pensiero del Network che tematizzava “identità e differenze in un continente-mosaico che cambia” e sosteneva, con riferimento a Penser l’Europe di Edgar Morin, che “il pensiero critico si è infranto sullo schermo televisivo: ma già affiorano i segni di una immaginazione critica”.
Ruberti e Balibar (che hanno tenuto per noi molteplici conferenze e seminari) sottolinearono il processo in atto di indebolimento e democratizzazione dei confini tra paesi, culture, discipline, e auspicarono lo sviluppo di un dialogo tra politici e intellettuali. Il Network ha ricevuto adesioni importanti, come quelle di Jacques Delors, Eric Hobsbawm, Ernst Gombrich, Stuart Hall, Antonio Tabucchi, Dario Fo, Franca Rame, João Bénard da Costa.
Da Ruberti abbiamo appreso la nozione di “sapere” quale “capitale immateriale” e abbiamo ereditato la necessità di perseguire il “triangolo virtuoso tra istruzione, formazione e ricerca”. Balibar ci ha aiutato a chiarire alcuni obiettivi indilazionabili per una Europa progressiva, come una cittadinanza capace di superare il dilemma inclusione-esclusione, una politica migratoria democratica, la formazione, a livello europeo, di “intellettuali organici” di nuovo tipo.
La questione dei confini è decisiva sia dal punto di vista politico internazionale (“cittadini d’Europa, cittadini del mondo”) che ideologico (dialogo, o meglio contrappunto tra culture) ed epistemologico (enci-clopedia del sapere, intermedialità ossia circolarità tra parole, immagini, suoni).
Che cosa ha a che fare con la questione Europa-America tutto ciò? Con Balibar potremmo parlare della possibilità-necessità di una politica di in-potenza dell’Europa. Si tratta cioè di immaginare un’Europa capace di esprimere le potenzialità di un modo alternativo, rispetto a quello egemone negli Stati Uniti, di concepire la potenza di un organismo politico, nazionale o sopranazionale, rispetto al mondo globalizzato. Non so se siano qui in gioco intellettualismi, fughe o utopie. Potrebbe anche darsi. So però che il mondo ha bisogno di una strategia politica, non puramente economico-militare dei conflitti, e di una governance non imperialistica o non imperiale. A questo fine occorre lottare e resistere contro una prassi politica dominante che tende a chiudere e ad annullare gli spazi del confronto egemonico. È questo l’umanesimo della convivenza.

5. Oggi appare più importante ciò che guardiamo e intuiamo di quello che sentiamo ed elaboriamo mentalmente. Si è imposto un nuovo tipo di espressione/ comunicazione, che appare scavalcare la dimensione della riflessione, attraverso un linguaggio multimediale che ci immerge nella con-fusione impedendoci di cogliere e valorizzare le distinzioni. Il “pensiero critico”, o quello che Lei chiama “immaginazione critica” e “intermedialità”, cioè circolarità e traducibilità dei linguaggi, può ritrovare il suo ruolo nella ricerca di un’alternativa all’appiattimento ideologico e all’omologazione culturale?

Nel Libro di pittura Leonardo chiama la pittura un “discorso mentale”, sostenendo l’identità tendenziale di scienza e arte; traduce la pittura in “poesia muta”, la poesia in “pittura cieca”, la musica in “figurazione di cose invisibili”. È la quintessenza di una concezione e di una prassi, antitetica a una divisione rigida del sapere e delle arti, che è stata travolta dal pensiero egemone della modernità, come si è configurato con Michelangiolo, Galilei e Descartes. Non vogliamo certo… regredire e dichiararci antimoderni! Si tratta solo di riconoscere il fatto che alcuni tagli sono stati realizzati e sono stati dolorosi (come ricorda in modo esemplare Edmund Husserl in apertura della Crisi delle scienze europee).
La cosiddetta crisi dei fondamenti ha pian piano costretto a rivedere certe sicurezze. Tra le scienze e le arti sono avvenuti processi che forse solo oggi, in piena epoca elettronica, giungono a maturazione. In questo contesto, fluido e non facilmente determinabile, la posizione che Leonardo assunse allora rivendica, per così dire, riconoscimento e diritti. Nel campo artistico ad esempio, già all’inizio del Novecento – quando l’immagine del movimento si combinerà con il movimento dell’immagine – la memoria di Leonardo ispirerà il cinematografo di Ejzenstein. Negli anni Sessanta Nam June Paik, fondatore della videoarte, nel crogiuolo del movimento Fluxus parlerà di “intermedialità”: una pratica artistica, con fondamenti scientifici, che ci riporta a mio avviso a Leonardo, in particolare al Paragone delle arti, prima parte del Libro di pittura. (Su questi temi anni fa ad Urbino ci fu un’interessante iniziativa di studio assieme a Carlo Predetti, Pietro Montani e Marco Maria Gazzano; spunti importanti li ha forniti Adriano Aprà).
I linguaggi scientifici e artisti vanno riconosciuti e valorizzati nella loro distinzione e autonomia; nello stesso tempo va mostrata la loro reciproca estensione, relazionalità, intreccio; con la terminologia di Gramsci, la loro reciproca “traducibilità”. È evidente che un tale processo entra in contraddizione, si potrebbe dire in concorrenza, con la divisione del sapere e con uno “specialismo” obiettivamente, e quindi necessariamente sempre più spinto e avanzato. In questo senso ho parlato, celiando, di “premodernità” di Leonardo, il quale coltivava innumerevoli forme di specialismo, ma in un orizzonte relazionale: un’esigenza, questa, che sarà riconosciuta e messa al centro dell’attenzione nel Novecento da pensatori illustri, come Whithead e Merleau-Ponty.
Indubbiamente la possibilità di combinare autonomia-specialismo e relazionalità-traducibilità dei linguaggi scientifici è controversa, e oggettivamente problematica, oggi probabilmente più di ieri. Occorre guardarsi da ipostatizzare ideologicamente una tale possibilità, sostenendo acriticamente l’unità o unificabilità del sapere, o, ancor peggio, ipotizzando in modo generico che quella possibilità sia stata causa ed effetto, dal punto di vista epistemologico, della globalizzazione. Anche in questo caso c’è bisogno di una “filologia vivente”, e quindi di un’analisi puntuale delle particolarità nelle quali il problema si presenta. Ciò che non è eludibile è l’esistenza del problema, nel quale è implicata, oltre che la filosofia, anche una politica della scienza.
Dal punto di vista artistico ed estetico, credo che il dito nella piaga l’abbia posto l’ultimo Marcuse (morto nel 1979) il quale, in una serie di acuti frammenti, con un linguaggio strutturalmente diverso dalla forma sistematica nella quale prevalentemente egli ha scritto, ha sottolineato la necessità di reagire al consumismo vieppiù dilagante promuovendo una pratica artistica popolare, nel senso nel quale Beuys diceva: “siamo tutti artisti”. Marcuse sostiene che la rivoluzione è tanto più necessaria quanto più impossibile. La cultura dominante ha distrutto, nella mentalità popolare, il gusto del diverso e perciò del cambiamento. L’estetica, intesa insieme come analisi delle sensazioni e dell’arte, è una teoria della varietà, del movimento e del cambiamento. (Ciò che Fortini chiamava il Sempreguale, e che oggi si presenta come Eternopresente, è il cavallo di battaglia della cultura dominante nella sua furia devastatrice di ogni Differenza). C’è bisogno di arte, continua Marcuse, più propriamente di “arte per l’arte” – abbandonata dalla borghesia – intesa però non come produzione di “opere”, bensì come ripresa, a livello di massa, della capacità di lavorare, giocare, sperimentare con le parole, con le immagini e con i suoni, quali modi e strumenti di esprimersi e comunicare, che oggi sono diventati cose inerti, sempre più manipolabili. (Gramsci parlava di “rivoluzione passiva”). Anche Paolo Volponi, parlando del suo capolavoro Corporale, laboratorio di sperimentazione linguistica e culturale, in una intervista a Bettini, aveva detto qualcosa di analogo.
In questa strategia di resistenza può racchiudersi il senso della intermedialità, che si oppone al governo dei linguaggi da parte dei mass-media.
Le “nuove tecnologie” della parola, dell’immagine e del suono hanno prodotto la multimedialità, la quale è per un verso un processo di integrazione oggettivo, fondamento forse di una nuova lingua, con un nuovo vocabolario, grammatica e sintassi. Per altro verso però essa costituisce un’arma micidiale, al servizio di un’egemonia culturale che consapevolmente, sistematicamente, capillarmente cerca di mettere fuori gioco quelle che Marx chiamava le armi della critica. Si pensi all’ideologia neo-con negli Stati Uniti e ai vari berlusconismi sparsi per il mondo.
Intermedialità è, o vorrebbe essere, un punto di vista che, come sostiene Gazzano, interpreta, corregge e arricchisce la multimedialità; si oppone al solipsismo televisivo di massa, con la promozione di uno spirito critico e sperimentale, che richiede l’educazione democratica dei giovani all’autonomia e alla relazionalità, insieme, dei linguaggi artistici e scientifici, così come al sodalizio tra ragione e passione.

6. Che rapporto c’è, nella Sua attività, tra il lavoro teorico-filosofico e la produzione audiovisiva che, dopo essersi avventurata assieme a Dario Fo in un “viaggio nel mondo di Gramsci”, oggi La vede impegnata in un contrappunto con la musica popolare brasiliana?

Nel 1985-86 una casuale esperienza di attore, assieme ai miei figli, in un film di Straub-Huillet, La morte di Empedocle dall’omonima tragedia di Hölderlin, ha determinato in me una svolta. La re-citazione (come diceva Brecht) di un testo poetico-filosofico, e la sua traduzione in immagini audio-visive, mi hanno fatto toccare con mano, o meglio con gli occhi e con le orecchie, la verità e attualità di quel pensiero di Leonardo che ho citato dianzi.
Poco dopo, nel 1987, cinquantenario della morte di Gramsci, mi accinsi alla preparazione di un libro su di lui, che invece ho scritto oltre dieci anni dopo. Ebbi infatti l’opportunità di trasformare quel progetto di scrittura in un’impresa di “scrittura con la luce”, e cioè nella realizzazione del film televisivo “Gramsci, l’ho visto così”, di cui fui coautore insieme al regista Gianni Amico. Gianni, che aveva collaborato con Rossellini, Bertolucci, Godard, Glauber Rocha – ed era stato autore nel 1967 di un capolavoro, Tropici - ha praticato e teorizzato il “cinema-saggio”, che è anche cinema di pensiero. Al termine di quell’indimenticabile anno di lavoro in comune, Gianni mi disse che la sua/nostra ambizione era di aver realizzato un film gramsciano su Gramsci.
Ci ripromettemmo di continuare con Gramsci. Ma Gianni morì e mi lasciò solo con questo progetto, che non volli abbandonare. Fortunatamente fui assistito splendidamente da sua figlia Valentina, oltre che da collaboratori e tecnici preziosissimi, che mi hanno aiutato a improvvisarmi regista in un videofilm, dedicato a gianni amico di gramsci, che ebbe la generosissima partecipazione di Dario Fo e Franca Rame. Titolo del film New York e il mistero di Napoli. Viaggio nel mondo di Gramsci, con riprese effettuate tra il 1987 (da Gianni) e il 1994. Fu una sorpresa verificare come la figura di Gramsci fosse uscita indenne dallo straordinario/terribile 1989. Il film-saggio - promosso da un’associazione cofondata a Urbino con Paolo Volponi, il cui nome divenne poi il titolo del mio libro Le rose e i quaderni - non ha mai avuto una vera edizione; si è conquistato però un circuito privato e amicale, in città sparse per il mondo.
L’anno di lavoro con Gianni amico querido, che mi chiamava “il filosofo”, fu per me occasione di un’esplorazione in un territorio di confine tra Cinema e tre P (poesia, politica, pensiero). Grande assente fu la Musica, che solo dopo la scomparsa di Gianni, frequentando la sua moglie-compagna Fiorella, scoprii essere stata il suo dèmone africano-americano (jazz in Nordamerica, samba in quel “continente parallelo” agli Stati Uniti che è il Brasile).
Si determinò un contagio: la Musica tropicale, in contrappunto con il Cinema e quei tre P, mi conquistò, accompagnandomi nella “scoperta” di Napoli e del suo contrappunto con Bahia. Nel 2000 nacque il progetto NapoliBahia, che ha avuto successivamente due illustri mentori: Caetano Veloso e Gilberto Gil. Spero che prossimamente si associ il loro ideale partner partenopeo, Pino Daniele.
Gli abitanti di Salvador di Bahia vengono chiamati (dalle parole greche soteros e polis) “soteropolitani”. Da questa espressione scaturisce Caetano soteronapoletano, che ha dato nome a un corto da me realizzato in occasione del concerto tenuto nel 2002 da Caetano all’Arena Flegrea.
Attualmente sto ultimando un corto che ha avuto la “grazia” di venir girato da un grande maestro di arte-video, Robert Cahen, anche lui, come Gianni Amico, incantato dalla musica (il cinema di Cahen è nato dalla collaborazione con Pierre Schaffer, ideatore della musica concreta). Il video, che verrà presentato a Napoli entro l’anno e poi a Salvador, in occasione della settimana di NapoliBahia, si chiama Sirene in canto ed è ispirato ad una canzone su testo di Gilberto Gil, La novità. Essa descrive il sogno di liberazione determinato dal ritorno delle sirene sul palcoscenico del mondo, ma anche la lacerazione prodotta dalla guerra tra il poeta, che vuole amare la sirena, e l’affamato che la vuole divorare. “Oh mondo tanto diseguale! Da un lato questo carnevale, dall’altro la fame totale”.
Il testo di Gil e il dialogo con lui mi hanno aiutato a imprimere la giusta dimensione politico-sociale a un’idea poetica il cui rischio era di navigare in acque troppo idilliache. L’idea consiste nella nascita di una nuova sirena tropicomediterranea, simbolo della musicalizzazione della civiltà, attraverso l’incontro tra l’immagine di Partenope, sirena archetipa di Napoli, e la sirena, simbolicamente viva e vegeta, di origine africana, di Bahia: Yemanjá, regina del mare. Chi conosce la convivenza di modernità e incanto, che Yemanjá tuttora rappresenta a Bahia, con le sue luci e le sue ombre, capisce che cosa intendo dire.
La guerra ideata da Gil tra il poeta e l’affamato è una guerra più nobile di quella che si va consumando nel mondo tra i neocolonizzatori e gli affamati. Stimola un impegno, e indica una speranza, che conosce purtroppo tante disillusioni: come quella, a livello politico, che oggi proviene proprio da Terra Brasil.

7. Lei dedica tempo ed energia anche al lavoro organizzativo. Per un verso Lei è il Presidente della International Gramsci Society-Italia. Per altro verso è impegnato in un Network interuniversitario con una dimensione continentale – Immaginare l’Europa – e una euro-brasiliana: Transito Atlantico. Il suo precoce pensionamento dall’insegnamento universitario presso l’Università di Urbino probabilmente la aiuta a districarsi tra ambiti di attività così diverse. Quale bilancio si può trarre da questa Sua versatilità?

Il rischio costante del mio modo di lavorare è la dispersione di energie. Invecchiando, cerco di essere più sobrio e di agire in modo più mirato.
La costituzione del Network Transito Atlantico è in corso: si tratta di un progetto italo- ed euro-brasiliano, estensione fuori dell’Europa, lungo itinerari scientifici e didattici, artistici e culturali, di Immaginare l’Europa. La base di partenza sono strutture universitarie (a Napoli, Roma, Siena, Bologna, Osnabrück, Düsseldorf, Barcellona, Coimbra, Bucarest, Salvador di Bahia, San Paolo, Rio de Janeiro, Niteroy, Marília). Le sedi italiane del Network sono attualmente in costituzione presso L’Orientale di Napoli (con il rettore Pasquale Ciriello), Roma Tre (con Eligio Resta) e Federico II di Napoli (con Renata Viti Cavaliere e Giuseppe Cacciatore). L’espressione Transito Atlantico è stata proposta da un illustre epidemiologo, rettore dell’Universidade Federal da Bahia, Naomar de Almeida-Filho. Lo stesso Naomar, un direttore d’orchestra come Gil Jardim, una psicoanalista come Denise Coutinho, una regista teatrale come Célia Tolentino, un filosofo come Giovanni Semeraro e altri stanno lavorando a un progetto che sconfina oltre gli Atenei e riconosce nel regista cinematografico Nelson Pereira dos Santos un “maestro”. Una iniziativa di arteducazione e di pedagogia del desiderio come il Projeto Axé di Bahia, che coinvolge migliaia di meninos da rua (in gran parte oramai ex “ragazzi di strada”) è il punto di riferimento per la promozione di una “università aperta” alla cittadinanza e di una “università popolare” capace di scendere nelle piazze.
L’idea di una International Gramsci Society è nata ad Amburgo a metà degli anni Ottanta in occasione di “università popolari” indette in una grande ex-fabbrica per promuovere l’incontro tra il pensiero di Gramsci e personalità come Rosa Luxemburg e Mariategui. Nel 1987 un incontro tra Valentino Gerratana, Joseph Buttigieg, Cornel West, Frank Rosengarten, John Cammett, Antonio Santucci e il sottoscritto precisò il progetto, che fu presentato al Convegno “Modern Times: Gramsci e la critica dell’americanismo”, organizzato dal Cipec di Democrazia Proletaria nello stesso anno. Il progetto fu rilanciato al Convegno internazionale di Formia del 1989, organizzato dall’Istituto Gramsci di Roma. Giuseppe Vacca partecipò, assieme agli studiosi citati, alla costituzione ufficiale dell’Associazione, formalizzata a Roma e a New York.
La figura di Antonio Gramsci è esemplare anche dal punto di vista dello stile della sua partecipazione alle lotte di egemonia. Basti pensare alla lealtà e solidarietà che hanno sempre caratterizzato il suo rapporto con il rivale politico Amedeo Bordiga. Attorno a Gramsci, dopo l’arresto, si sono invece addensate, in carcere e fuori del carcere, manifestazioni di segno contrario, che hanno finito per lasciare il fondatore del Pci in una condizione di sostanziale isolamento politico. Più tardi Togliatti e il togliattismo, nonostante evidenti forzature nell’interpretazione del suo pensiero, hanno fortunatamente gestito l’eredità di Gramsci per lo meno con coerenza.
Nel suo piccolo, la vicenda italiana della International Gramsci Society ha risentito di una nuova stagione di insofferenze. Contraddizioni che, per usare il linguaggio di Mao, avrebbero dovuto svilupparsi “in seno al popolo”, si sono trasformate in “antagonistiche”. Renato Zangheri ha fatto molto per ricomporre difficoltà e malintesi. Oggi la situazione si è disincantata e forse si preannuncia un periodo di possibili armonie, nell’articolazione di una concordia discors. Il terzo convegno-congresso della IGS, preannunciato in Sardegna dopo quello di Napoli (1997) e di Rio de Janeiro (2000), potrebbe giovarsi di un clima favorevole.

PUBBLICATO IL : 02-10-2005

http://www.giornaledifilosofia.net/public/scheda.php?id=35

Giorgio Baratta: La cosmopoli di Gramsci, antidoto al leghismo

Il crollo del socialismo reale e il rigonfio dell'americanismo, la violenza arrogante dell'era Bush e il trionfo dei fondamentalismi che mette in crisi le acquisizioni del postcolonialismo, la globalizzazione economica e mediatico-culturale, ora la crisi, hanno determinato e determinano in varie parti del mondo il risveglio di interesse per il pensiero di Gramsci. In un senso paradossale, ma non peregrino, il suo modo-metodo di pensare appare per alcuni versi più attuale oggi rispetto al periodo nel quale egli scriveva. La sostanza internazionale del pensiero di Gramsci e, insieme, il motus - crescendo regionale-nazionale-continentale-mondiale che essa sprigiona, sono la ragione della sua fortuna oggi, diversa da quella di ieri. Il focus sta nella consapevolezza della mondializzazione della politica a dominanza americana, a fronte della certezza che la filosofia della prassi, animata da un autentico «filosofo democratico» o «pensatore collettivo», delinea o può delineare un orizzonte pratico-teorico nel quale morendo, come muore, il "vecchio", si profila all'orizzonte il "nuovo", anche se per ora, come Gramsci scrive nel Quaderno 3, «non può nascere». Che cosa fosse e cosa potrà essere questo "nuovo", è il suo, e nostro, sogno di una cosa. Nel Quaderno 1 Gramsci rivendica, differenziandosi da Lenin e dalla linea di pensiero dell'Internazionale, la fioritura di una nuova fase del capitalismo, che si annuncia attraverso il primato economico e politico degli Stati Uniti e l'egemonia americana/americanista. In questo contesto egli ripropone la questione meridionale - affrontata a livello tutto italiano nelle Tesi del 1926 - in una dimensione internazionale, rispetto alla quale l'emblematico, per l'Italia e l'Europa «mistero di Napoli», si ricollega a tutti i Sud del mondo, in particolare a quei Paesi asiatici, come «l'India e la Cina», ove si presentano il «ristagno della storia e l'impotenza politico-militare». Tuttavia già nel Quaderno 2 Gramsci lumeggia un possibile transito: «Se la Cina e l'India diventassero nazioni moderne, con grandi masse di produzione industriale» e «si sposterà l'asse della politica mondiale dall'Atlantico al Pacifico», che cosa accadrà? Si capisce bene la prudenza politico-programmatica di Gramsci in un «mondo grande e terribile» che risulta, «specialmente per chi è in carcere, sempre più incomprensibile».



Un punto fermo è l'insistenza, anche metaforica ed espressiva, di Gramsci sulla categoria "mondo", spia della centralità del cosmopolitismo=nuovo internazionalismo nel ritmo del suo pensiero. Gli studi geo-politici e culturali (ad es. di Boothman, che interverrà sull'Islam a Cagliari) hanno avviato la «filologia vivente» di questa dimensione.
Banco di prova di un «moderno cosmopolitismo», a partire dal «vecchio centro», in via di sfaldamento, è, per un verso, la «crisi italiana», per altro la questione europea. Di qui la singolare e problematica, ma efficace espressione: «una nuova cosmopoli europea e mondiale». A che cosa pensa Gramsci?
Nel Quaderno 9 leggiamo: «Nel Risorgimento, Mazzini-Gioberti cercano di creare il mito di una missione dell'Italia rinata in una nuova Cosmopoli europea e mondiale, ma è un mito puramente verbale e cartaceo». A fronte di questo cosmopolitismo «tradizionale, gonfio di retorica e di ricordi meccanici del passato», che aspira a modernizzarsi coniugandosi, sia pure da posizioni arretrate, con l'«uomo-capitale», Gramsci ribadisce che «l'espansione italiana è dell'uomo-lavoro non dell'uomo-capitale. Il cosmopolitismo italiano non può non diventare internazionalismo. Non il cittadino del mondo, in quanto civis romanus o cattolico, ma in quanto lavoratore e produttore di civiltà». E' cieco chi non veda in questo passo lungi-mirante un modello passato del ricongiungimento, che il presente quadro politico italiano ci offre, tra le godurie mediatiche dell'«uomo capitale» e i rigurgiti clerical-fascisti di «ricordi meccanici del passato». Quel che stona con l'oggi è evidentemente la pars costruens , che manca, cioè l'italiano uomo-lavoro produttore di civiltà.
Dalla Sardegna all'Italia, all'Europa, al mondo: «l'unificazione del genere umano» - analiticamente la ripresa di ciò che Marx una volta chiamò il «comunismo del capitale», progettualmente la trasformazione del senso comune in comunismo socialista - è un leit-motiv nascosto, a volte affiorante, nelle pieghe di tutti i Quaderni . Abbiamo parlato dell'Italia. Guardiamo all'Europa, anche qui nella tensione passato-presente. L'"europeismo" di Gramsci è una convinzione fortissima. Dal quaderno 6: «Esiste oggi una coscienza culturale europea ed esiste una serie di manifestazioni di intellettuali e uomini politici che sostengono la necessità di una unione europea: si può anche dire che il processo storico tende a questa unione e che esistono molte forze materiali che solo in questa unione potranno svilupparsi: se fra x anni questa unione sarà realizzata la parola "nazionalismo" avrà lo stesso valore archeologico che l'attuale "municipalismo"».
Il punto delicato, oggi in questione, è il nesso che Gramsci stabiliva tra Europa e Nuova Cosmopoli. Si registra un paradosso: mai come oggi l'unione europea è apparsa tanto fragile e politicamente inconsistente; mai come oggi, tuttavia, la ricerca di un'alternativa al "nuovo ordine mondiale" "di marca americana" dimostra un bisogno urgente di iniziativa dell'Europa - "potenza di mediazione" - congeniale a quella che Gramsci chiamava «una moderna forma di cosmopolitismo». La gramsciana dialettica del contrappunto tra forme plurime di appartenenza e comunanza degli individui, ha rappresentato e rappresenta una grande sfida contro la tragica mania identitaria che ha in gran parte caratterizzato, in difetto di prospettive concretamente internazionaliste, la storia del Novecento e di questo inizio di secolo. Così Gramsci ha potuto ragionare sul valore politico del suo ancoramento alle proprie radici in Sardegna e insieme ha esplicitato l'esigenza di una radicale fuoriuscita dal suo originario «triplice o quadruplice provincialismo» al fine di abbracciare una coscienza, più che nazionale, "europea": coscienza difficile, che non può, né deve chiudersi in se stessa, in un'epoca, come si dice nel Quaderno 2, nella quale «l'Europa ha perduto la sua importanza e la politica mondiale dipende da Londra, Washington, Mosca, Tokyo più che dal continente».
Il nostro Convegno affronta Gramsci e la "sua" Europa fuori dell'Europa: tematizza la presenza dell'Asia e dell'Africa nel suo pensiero, e insieme l'attualità di esso in questi continenti. Sono noti i processi di studio e di uso produttivo di Gramsci in Asia, come dimostrano i Subaltern Studies fondati da Guha in India. E l'Africa? Il Convegno è una promessa, quale tematizzazione di un argomento certo secondario, ma non irrilevante nei Quaderni. Uno studioso della letteratura senegalese immaturamente scomparso, Werner Glinga, delineò, in una magistrale analisi nel Convegno romano del Cipec del 1987, nel quale fu concepita la IGS, il "triangolo della schiavitù" tra Africa, Europa, America, che Gramsci aveva tenuto presente. Il grande intellettuale nero Cornel West - allora consulente di Jesse Jackson, candidato alternativo a Reagan per la presidenza degli Stati Uniti, così come quest'anno è stato un promotore della candidatura di Obama - mise in guardia, in una videorelazione a quello stesso convegno, dall'uso dell'apocope "afro-americano", sottolinando la necessità, financo linguistica, di lasciare spazio all'eredità africana della nazione americano-statunitense.
Certo ancora non sappiamo in che cosa consisterà quella che già che viene chiamata l'era Obama. Siamo solo agli albori. Tendenzialmente i suoi compiti si possono caratterizzare con l'articolazione: riforma economica, rivoluzione simbolica, mutamento dello scenario internazionale (per non parlare di ecologia): momenti diversi - difficile dire se solidali o in contrasto tra loro - di una medesima problematica, estremamente complessa.
Come si presenterà il volto dell'America e dell'americanismo con Obama? Che cosa dirà Gramsci?

http://pensatoio.ilcannocchiale.it/post/2184462.html

Le rose e i quaderni. Il pensiero dialogico di Antonio Gramsci

Titolo Le rose e i quaderni. Il pensiero dialogico di Antonio Gramsci
Autore Baratta Giorgio
Prezzo € 23,30
Prezzi in altre valute
Dati 2003, 239 p., brossura
Editore Carocci (collana Biblioteca di testi e studi)

"Le rose e i quaderni" propone un nuovo sguardo su Gramsci, frutto di un lungo viaggio attraverso la sua fortuna nel mondo. Il volume si addentra nel labirinto dei Quaderni interrogandoli da un punto di vista "dialettico-dialogico" senza forzarne o appiattirne i momenti "contrappuntistici", ma facendosi anzi guidare da essi. Dopo una prima parte che rivolge un'attenzione più matura a concetti che sembravano invecchiati (a cominciare da "nazionale-popolare", complicato dall'estensione "nazionale-internazionale") e una seconda incentrata sul concetto di "uomo" ma che percorre anche altri spazi di tensione, la ricerca culmina nell'ultima parte dedicata a Europa-America-Mondo.

http://www.ibs.it/code/9788843027828/baratta-giorgio/rose-e-i-quaderni.html

giovedì 29 ottobre 2009

Edward Said: The Public Role of Writers and Intellectuals

The Public Role of Writers and Intellectuals
By Edward W. Said

This article appeared in the September 17, 2001 edition of The Nation.
September 11, 2002

In everyday usage in the languages and cultures with which I am familiar, a "writer" is a person who produces literature--that is, a novelist, poet, dramatist. I think it is generally true that in all cultures writers have a separate, perhaps even more honorific, place than do "intellectuals"; the aura of creativity and an almost sanctified capacity for originality (often vatic in scope and quality) accrues to writers as it doesn't at all to intellectuals, who with regard to literature belong to the slightly debased and parasitic class of "critics." Yet at the dawn of the twenty-first century the writer has taken on more and more of the intellectual's adversarial attributes in such activities as speaking the truth to power, being a witness to persecution and suffering, and supplying a dissenting voice in conflicts with authority. Signs of the amalgamation of one to the other would have to include the Salman Rushdie case in all its ramifications; the formation of numerous writers' parliaments and congresses devoted to such issues as intolerance, the dialogue of cultures, civil strife (as in Bosnia and Algeria), freedom of speech and censorship, truth and reconciliation (as in South Africa, Argentina, Ireland and elsewhere); and the special symbolic role of the writer as an intellectual testifying to a country's or region's experience, thereby giving that experience a public identity forever inscribed in the global discursive agenda.

The easiest way of demonstrating this is simply to list the names of some (but by no means all) recent Nobel Prize winners, then to allow each name to trigger in the mind an emblematized region, which in turn can be seen as a sort of platform or jumping-off point for that writer's subsequent activity as an intervention, in debates taking place very far from the world of literature. Thus Nadine Gordimer, Kenzaburo Oe, Derek Walcott, Wole Soyinka, Gabriel García Márquez, Octavio Paz, Elie Wiesel, Bertrand Russell, Günter Grass, Rigoberta Menchú, among several others.

Now it is also true, as Pascale Casanova has brilliantly shown in her synoptic book La République mondiale des lettres, that, fashioned over the past 150 years, there seems to be a global system of literature now in place, complete with its own order of literariness (littérarité), tempo, canon, internationalism and market values. The efficiency of the system is that it seems to have generated the types of writers that she discusses as belonging to such different categories as assimilated, dissident and translated figures--all of them both individualized and classified in what she shows is a highly efficient, globalized, quasi-market system. The drift of her argument is to show that this powerful and all-pervasive system can go even as far as stimulating a kind of independence from itself, as in cases like Joyce and Beckett, writers whose language and orthography do not submit to the laws either of state or of system.

Much as I admire it, however, the overall achievement of Casanova's book is nevertheless contradictory. She seems to be saying that literature as globalized system has a kind of integral autonomy to it that places it in large measure just beyond the gross realities of political institutions and discourse, a notion that has a certain theoretical plausibility to it when she puts it in the form of un espace littéraire internationale, with its own laws of interpretation, its own dialectic of individual work and ensemble, its own problematics of nationalism and national languages. But she doesn't go as far as Adorno in saying, as I would too, that one of the hallmarks of modernity is how, at a very deep level, the aesthetic and the socialneed to be kept in a state of irreconcilable tension. Nor does she spend enough time discussing the ways in which the literary, or the writer, is still implicated--indeed frequently mobilized for use--in the great post-cold war cultural contests of the world's altered political configurations.

Looked at from that perspective, for example, the debate about Salman Rushdie was never really about the literary attributes of The Satanic Verses but rather about whether there could be a literary treatment of a religious topic that did not also touch on religious passions in a very, indeed in an exacerbated, public way. I don't think that such a possibility existed, since from the very moment the fatwa was released to the world by Ayatollah Khomeini, the novel, its author and its readers were all deposited squarely inside an environment that allowed no room for anything but politicized intellectual debate about such socioreligious issues as blasphemy, secular dissent and extraterritorial threats of assassination. Even to assert that Rushdie's freedom of expression as a novelist could not be abridged--as many of us from the Islamic world did assert--was in fact to debate the issue of the literary freedom to write within a discourse that had already swallowed up and occupied (in the geographical sense) literature's apartness entirely.

In that wider setting, then, the basic distinction between writers and intellectuals need not be made. Insofar as they both act in the new public sphere dominated by globalization (and assumed to exist even by adherents of the Khomeini fatwa), their public role as writers and intellectuals can be discussed and analyzed together. Another way of putting it is to say that we should concentrate on what writers and intellectuals have in common as they intervene in the public sphere.

First we need to take note of the technical characteristics of intellectual intervention today. To get a dramatically vivid grasp of the speed to which communication has accelerated in the past decade, I'd like to contrast Jonathan Swift's awareness of effective public intervention in the early eighteenth century with ours. Swift was surely the most devastating pamphleteer of his time, and during his campaign against the Duke of Marlborough in 1711-12 was able to get 11,000 copies of his pamphlet The Conduct of the Allies onto the streets in two months. This brought the Duke down from his high eminence but nevertheless did not change Swift's pessimistic impression (dating back to A Tale of a Tub, 1704) that his writing was basically temporary, good only for the short time that it circulated. He had in mind, of course, the running quarrel between ancients and moderns, in which venerable writers like Homer and Horace had the advantage over modern figures like Dryden by virtue of their age and the authenticity of their views of great longevity, even permanence.

In the age of electronic media such considerations are mostly irrelevant, since anyone with a computer and decent Internet access is capable of reaching numbers of people quantum times more than Swift did, and can also look forward to the preservation of what is written beyond any conceivable measure. Our ideas today of discourse and archives must be radically modified and can no longer be defined as Foucault painstakingly tried to describe them a mere two decades ago. Even if one writes for a newspaper or journal, the chances of digital reproduction and (notionally at least) an unlimited time of preservation have wreaked havoc on the idea of an actual, as opposed to a virtual, audience. These things have certainly limited the powers that regimes have to censor or ban writing that is considered dangerous, although there are fairly crude means for stopping or curtailing the libertarian function of online print. Until only very recently Saudi Arabia and Syria, for example, successfully banned the Internet and even satellite television. Both countries now tolerate limited access to the Internet, although both have also installed sophisticated and, in the long run, prohibitively expensive interdictory processes to maintain their control.

As things stand, an article I might write in New York for a British paper has a good chance of reappearing on individual websites or via e-mail on screens in the United States, Japan, Pakistan, the Middle East and South Africa as well as Australia. Authors and publishers have very little control over what is reprinted and recirculated. I am constantly surprised (and don't know whether to be angry or flattered) when something that I wrote or said in one place turns up with scarcely a delay halfway around the world. For whom then does one write, if it is difficult to specify the audience with any sort of precision? Most people, I think, focus on the actual outlet that has commissioned the piece or on the putative readers we would like to address. The idea of an imagined community has suddenly acquired a very literal, if virtual, dimension. Certainly, as I experienced when I began ten years ago to write in an Arabic publication for an audience of Arabs, one attempts to create, shape, refer to a constituency. This is requisite now much more than during Swift's time, when he could quite naturally assume that the persona he called a Church of England man was in fact his real, very stable and quite small audience.

All of us should therefore operate today with some notion of very probably reaching much larger audiences than any we could conceive of even a decade ago, although the chances of retaining that audience are by the same token quite chancy. This is not simply a matter of optimism of the will: It is in the very nature of writing today. This makes it very difficult for writers to take common assumptions between them and their audiences for granted, or to assume that references and allusions are going to be understood immediately. But writing in this expanded new space strangely does have a further and unusually risky consequence: being encouraged to say things that are either completely opaque or completely transparent (and if one has any sense of intellectual and political vocation, it should of course be the latter rather than the former).

On one side, a half-dozen enormous multinationals presided over by a handful of men control most of the world's supply of images and news. On the other, there are the independent intellectuals who actually form an incipient community, physically separated from each other but connected variously to a great number of activist communities shunned by the main media but who have at their disposal other kinds of what Swift sarcastically called oratorical machines. Think of what an impressive range of opportunities is offered by the lecture platform, the pamphlet, radio, alternative journals, the interview form, the rally, church pulpit and the Internet, to name only a few. True, it is a considerable disadvantage to realize that one is unlikely to get asked onto the PBS NewsHour or ABC Nightline, or if one is in fact asked, that only an isolated fugitive minute will be offered. But then other occasions present themselves, not in the soundbite format but rather in more extended stretches of time.

So, rapidity is a double-edged weapon. There is the rapidity of the sloganeeringly reductive style that is the main feature of "expert" discourse--to-the-point, fast, formulaic, pragmatic in appearance--and there is the rapidity of response and expandable format that intellectuals and indeed most citizens can exploit in order to present fuller, more complete expressions of an alternative point of view. I am suggesting that by taking advantage of what is available in the form of numerous platforms (or stages-itinerant, another Swiftian term), an intellectual's alert and creative willingness to exploit them (that is, platforms that either aren't available to or are shunned by the television personality, expert or political candidate) creates the possibility of initiating wider discussion.

The emancipatory potential--and the threats to it--of this new situation mustn't be underestimated. Let me give a very powerful example of what I mean. There are about 4 million Palestinian refugees scattered all over the world, a significant number of whom live in large refugee camps in Lebanon (where the 1982 Sabra and Shatila massacres took place), Jordan, Syria and in Gaza and the West Bank. In 1999 an enterprising group of young and educated refugees living in Dheisheh camp, near Bethlehem on the West Bank, established the Ibdaa Center, whose main feature was the Across Borders project; this was a revolutionary way, through computer terminals, of connecting refugees in most of the main camps, separated geographically and politically by impossibly difficult barriers, to one another. For the first time since their parents were dispersed in 1948, second-generation Palestinian refugees in Beirut or Amman could communicate with their counterparts inside Palestine. Some of what the participants in the project did was quite remarkable. Thus when Israeli closures were relaxed somewhat the Dheisheh residents went on visits to their former villages in Palestine, and then described their emotions and what they saw for the benefit of other refugees who had heard of but could not have access to these places. In a matter of weeks a remarkable solidarity emerged at a time when, it turned out, the so-called final-status negotiations between the PLO and Israel were beginning to take up the question of refugees and return, which along with the question of Jerusalem made up the intransigent core of the stalemated peace process. For some Palestinian refugees, therefore, their presence and political will was actualized for the first time, giving them a new status qualitatively different from the passive objecthood that had been their fate for half a century.

On August 26, 2000, all the computers in Dheisheh were destroyed in an act of political vandalism that left no one in doubt that refugees were meant to remain refugees, which is to say that they were not meant to disturb the status quo that had assumed their silence for so long. It wouldn't be hard to list the possible suspects, but it is hard to imagine that anyone will ever be named or apprehended. In any case, the Dheisheh camp-dwellers immediately set about trying to restore the Ibdaa Center, and seem to some degree to have succeeded. To answer the question "why" individuals and groups prefer writing and speaking to silence is equivalent to specifying what the intellectual and writer confront in the public sphere. The existence of individuals or groups seeking social justice and economic equality--and who understand, in Amartya Sen's formulation, that freedom must include the right to a whole range of choices affording cultural, political, intellectual and economic development--ipso facto will lead to a desire for articulation rather than silence. It almost goes without saying that for the American intellectual the responsibility is greater, the openings numerous, the challenge very difficult. The United States, after all, is the only global power; it intervenes nearly everywhere, and its resources for domination are very great, although far from infinite.

The intellectual's role generally is to uncover and elucidate the contest, to challenge and defeat both an imposed silence and the normalized quiet of unseen power, wherever and whenever possible. For there is a social and intellectual equivalence between this mass of overbearing collective interests and the discourse used to justify, disguise or mystify its workings while at the same time preventing objections or challenges to it. In this day, and almost universally, phrases such as "the free market," "privatization," "less government" and others like them have become the orthodoxy of globalization, its counterfeit universals. They are staples of the dominant discourse, designed to create consent and tacit approval. From that nexus emanate such ideological confections as "the West," the "clash of civilizations," "traditional values" and "identity" (perhaps the most overused phrases in the global lexicon today). All these are deployed not as they sometimes seem to be--as instigations for debate--but quite the opposite, to stifle, pre-empt and crush dissent whenever the false universals face resistance or questioning.

The main goal of this dominant discourse is to fashion the merciless logic of corporate profit-making and political power into a normal state of affairs. Behind the Punch and Judy show of energetic debate concerning the West and Islam, for example, all manner of antidemocratic, sanctimonious and alienating devices (the theory of the Great Satan or of the rogue state and terrorism) are in place as diversions from the social and economic disentitlements occurring in reality. In one place, Hashemi Rafsanjani exhorts the Iranian Parliament to greater degrees of Islamization as a defense against America; in the other, Bush, Blair and their feeble partners prepare their citizens for an indeterminate war against Islamic terrorism, rogue states and the rest. Realism and its close associate, pragmatism, are mobilized from their real philosophical context in the work of Peirce, Dewey and James, and put to forced labor in the boardroom where, as Gore Vidal has put it, the real decisions about government and presidential candidates are made. Much as one is for elections, it is also a bitter truth that elections do not automatically produce democracy or democratic results. Ask any Floridian.

The intellectual can offer instead a dispassionate account of how identity, tradition and the nation are constructed entities, most often in the insidious form of binary oppositions that are inevitably expressed as hostile attitudes to the Other. Pierre Bourdieu and his associates have very interestingly suggested that Clinton-Blair neoliberalism, which built on the conservative dismantling of the great social achievements (in health, education, labor, social security) of the welfare state during the Thatcher-Reagan period, has constructed a paradoxical doxa, a symbolic counterrevolution that includes the kind of national self-glorification I've just mentioned. This, Bourdieu says, is

conservative but presents itself as progressive; it seeks the restoration of the past order in some of its most archaic aspects (especially as regards economic relations), yet it passes off regressions, reversals, surrenders, as forward-looking reforms or revolutions leading to a whole new age of abundance and liberty (as with the language of the so-called new economy and the celebratory discourse around network firms and the internet).

As a reminder of the damage this reversal has already done, Bourdieu and his colleagues produced a collective work titled La misère du monde (translated in 1999 as The Weight of the World: Social Suffering in Contemporary Society), whose aim was to compel the politicians' attention to what in French society the misleading optimism of the public rhetoric had hidden. This kind of book therefore plays a sort of negative intellectual role, whose aim is, to quote Bourdieu again, "to produce and disseminate instruments of defense against symbolic domination which increasingly relies on the authority of science"--or on expertise or appeals to national unity, pride, history and tradition--to bludgeon people into submission. Obviously India and Brazil are different from Britain and the United States; but the often striking disparities in cultures and economies shouldn't obscure the even more startling similarities that can be seen in some of the techniques, and very often the aim, of deprivation and repression that compel people to follow along meekly. I should also add that one needn't always present an abstruse and detailed theory of justice to go to war intellectually against injustice, since there is now a well-stocked international storehouse of conventions, protocols, resolutions and charters for national authorities to comply with, if they are so inclined. And in the same context I would have thought it almost moronic to take an ultrapostmodern position (like Richard Rorty while shadowboxing with some vague thing he refers to contemptuously as "the academic Left") and say--when confronting ethnic cleansing, or genocide as it is occurring today in Iraq, or any of the evils of torture, censorship, famine, ignorance (most of them constructed by humans, not by acts of God)--that human rights are "cultural things," so that when they are violated they do not really have the status accorded them by such crude foundationalists as myself, for whom they are as real as anything else we can encounter.

All intellectuals carry around some working understanding or sketch of the global system (in large measure thanks to world and regional historians like Immanuel Wallerstein, Anouar Abdel-Malek, J.M. Blaut, Janet Abu-Lughod, Peter Gran, Ali Mazrui, William McNeill); but it is during the direct encounters with it in one or another specific geography or configuration that the contests are waged (as in Seattle and Genoa) and perhaps even winnable. There is an admirable chronicle of the kind of thing I mean in the various essays of Bruce Robbins's Feeling Global: Internationalism in Distress (1999), Timothy Brennan's At Home in the World: Cosmopolitanism Now (1997) and Neil Lazarus's Nationalism and Cultural Practice in the Postcolonial World (1999), books whose self-consciously territorial and highly interwoven textures are in fact an adumbration of the critical (and combative) intellectual's sense of the world we live in today, taken as episodes or even fragments of a broader picture, which their work and that of others is in the process of compiling. What they suggest is a map of experiences that would have been indiscernible, perhaps invisible, two decades ago, but that in the aftermath of the classical empires, the end of the cold war, the crumbling of the socialist and nonaligned blocs, the emergent dialectics between North and South in the era of globalization, cannot be excluded either from cultural study or from the somewhat ethereal precincts of the humanistic disciplines.

I've mentioned a few names not just to indicate how significant I think their contributions have been but also to use them in order to leapfrog directly into some concrete areas of collective concern, where, to quote Bourdieu for the last time, there is the possibility of "collective invention." He observes that

the whole edifice of critical thought is thus in need of reconstruction. This work of reconstruction cannot be done, as some thought in the past, by a single great intellectual, a master-thinker endowed only with the resources of his singular thought, or by the authorized spokesperson for a group or an institution presumed to speak in the name of those without voice, union, party, and so on. This is where the collective intellectual [Bourdieu's name for individuals the sum of whose research and participation on common subjects constitutes a sort of ad hoc collective] can play its irreplaceable role, by helping to create the social conditions for the collective production of realist utopias.

My reading of this is to stress the absence of any master plan or blueprint or grand theory for what intellectuals can do, and the absence now of any utopian teleology toward which human history can be described as moving. Therefore, one invents--in the literal use of the Latin word inventio, employed by rhetoricians to stress finding again or reassembling from past performances, as opposed to the romantic use of invention as something you create from scratch--goals abductively, that is, hypothesizes a better situation from the known historical and social facts.

So in effect this enables intellectual performances on many fronts, in many places, many styles, that keep in play both the sense of opposition and the sense of engaged participation. Hence, film, photography and even music, along with all the arts of writing, can be aspects of this activity. Part of what we do as intellectuals is not only to define the situation but also to discern the possibilities for active intervention, whether we then perform them ourselves or acknowledge them in others who have either gone before or are already at work, the intellectual as lookout. Provincialism of the old kind--e.g., I am a literary specialist whose field is early-seventeenth-century England--rules itself out and, quite frankly, seems uninteresting and needlessly neutered. The assumption has to be that even though one can't do or know everything, it must always be possible to discern the elements of a struggle or tension or problem near at hand that can be elucidated dialectically, and also to sense that other people have a similar stake and work in a common project.

I have found a brilliantly inspiring parallel for what I mean in Adam Phillips's recent book Darwin's Worms, in which Darwin's lifelong attention to the lowly earthworm revealed its capacity for expressing nature's variability and design without necessarily seeing the whole of either one or the other, thereby in his work on earthworms replacing "a creation myth with a secular maintenance myth." Is there some nontrivial way of generalizing about where and in what form such struggles are taking place now? I shall limit myself to saying a little about only three, each of which is profoundly amenable to intellectual intervention and elaboration.

The first is to protect against and forestall the disappearance of the past, which in the rapidity of change, the reformulation of tradition and the construction of simplified bowdlerizations of history is at the very heart of the contest described by Benjamin Barber (though rather too sweepingly) as "Jihad versus McWorld." The intellectual's role is first to present alternative narratives and other perspectives on history than those provided by the combatants on behalf of official memory and national identity--who tend to work in terms of falsified unities, the manipulation of demonized or distorted representations of undesirable and/or excluded populations, and the propagation of heroic anthems sung in order to sweep all before them. At least since Nietzsche, the writing of history and the accumulations of memory have been regarded in many ways as one of the essential foundations of power, guiding its strategies and charting its progress. Look, for example, at the appalling exploitation of past suffering described in their accounts of the uses of the Holocaust by Tom Segev, Peter Novick and Norman Finkelstein or, just to stay within the area of historical restitution and reparation, the invidious disfiguring, dismembering and disremembering of significant historical experiences that do not have powerful enough lobbies in the present and therefore merit dismissal or belittlement. The need now is for deintoxicated, sober histories that make evident the multiplicity and complexity of history without allowing one to conclude that it moves forward impersonally according only to laws determined either by the divine or by the powerful.

Second is to construct fields of coexistence rather than fields of battle as the outcome of intellectual labor. There are great lessons to be learned from decolonization; first, that, noble as its liberatory aims were, it did not often enough prevent the emergence of repressive nationalist replacements for colonial regimes; second, that the process itself was almost immediately captured by the cold war, despite the nonaligned movement's rhetorical efforts; and thirdly, that it has been miniaturized and even trivialized by a small academic industry that has simply turned it into an ambiguous contest among ambivalent opponents.

Third, in the various contests over justice and human rights that so many of us feel we have joined, there needs to be a component to our engagement that stresses the need for the redistribution of resources and that advocates the theoretical imperative against the huge accumulations of power and capital that so distort human life. Peace cannot exist without equality: This is an intellectual value desperately in need of reiteration, demonstration and reinforcement. The seduction of the word itself--peace--is that it is surrounded by, indeed drenched in, the blandishments of approval, uncontroversial eulogizing, sentimental endorsement. The international media (as has been the case recently with the sanctioned wars in Iraq and Kosovo) uncritically amplify, ornament, unquestioningly transmit all this to vast audiences for whom peace and war are spectacles for delectation and immediate consumption. It takes a good deal more courage, work and knowledge to dissolve words like "war" and "peace" into their elements, recovering what has been left out of peace processes that have been determined by the powerful, and then placing that missing actuality back in the center of things, than it does to write prescriptive articles for "liberals," à la Michael Ignatieff, that urge more destruction and death for distant civilians. The intellectual can be perhaps a kind of countermemory, putting forth its own counterdiscourse that will not allow conscience to look away or fall asleep. The best corrective is, as Dr. Johnson said, to imagine the person whom you are discussing--in this case the person on whom the bombs will fall--reading you in your presence.

Still, just as history is never over or complete, it is also the case that some dialectical oppositions are not reconcilable, not transcendable, not really capable of being folded into a sort of higher, undoubtedly more noble, synthesis. The example closest to home for me is the struggle over Palestine, which, I have always believed, cannot really be simply resolved by a technical and ultimately janitorial rearrangement of geography allowing dispossessed Palestinians the right (such as it is) to live in about 20 percent of their land, which would be encircled by and totally dependent on Israel. Nor, on the other hand, would it be morally acceptable to demand that Israelis should retreat from the whole of former Palestine, now Israel, becoming refugees like Palestinians all over again. No matter how I have searched for a resolution to this impasse, I cannot find one, for this is not a facile case of right versus right. It cannot be right ever to deprive an entire people of their land and heritage or to stifle and slaughter them, as Israel has been doing for the thirty-four years of its occupation. But the Jews too are what I have called a community of suffering, and brought with them a heritage of great tragedy. Yet unlike Zeev Sternhell, I cannot agree that the conquest of Palestine was a necessary conquest--the notion offends the sense of real Palestinian pain, in its own way also tragic.

Overlapping yet irreconcilable experiences demand from the intellectual the courage to say what is before us, in almost exactly the way Adorno, throughout his work on music, insisted that modern music can never be reconciled with the society that produced it; but in its intensely and often despairingly crafted form and content, music can act as a silent witness to the inhumanity all around. Any assimilation of individual musical work to its social setting is, says Adorno, false. I conclude with the thought that the intellectual's provisional home is the domain of an exigent, resistant, intransigent art into which, alas, one can neither retreat nor search for solutions. But only in that precarious exilic realm can one first truly grasp the difficulty of what cannot be grasped, and then go forth to try anyway.


About Edward W. Said

Edward W. Said, the University Professor of English and Comparative Literature at Columbia University, was for many years The Nation's classical music critic as well as a contributing writer. His writing also regularly appears in London's Guardian, Le Monde Diplomatique and the Arab-language daily al-Hayat, printed in every Arab capital in the world.

http://www.thenation.com/doc/20010917/essay