giovedì 10 dicembre 2009

I Quaderni non sono un bricolage, c'è la trama della rivoluzione

In libreria una raffinata interpretazione filologica di Raul Mordenti sul pensiero gramsciano. Gli scritti del carcere rompono con la tradizione enciclopedica. Sono un'opera-mondo, come i testi di Benjamin e Canetti. Ma non sono uno zibaldone caotico

Giorgio Baratta

Immaginiamo di trovarci, nella nostra automobilina filologica, sulla superficie di un territorio molto noto ma poco conosciuto. Possiamo viaggiare in lungo e in largo, in qualsiasi direzione. Attenzione. Stiamo toccando la Terra, con tante città e paesi - lettere, note e appunti - dell'Opera del carcere di Antonio Gramsci. Le strade sono impervie e assai tortuose; a volte si tratta di sentieri o sentierini; sono rari percorsi rettilinei o con curve agili e larghe. Scarsa e confusa la segnaletica. Ma il viaggio è affascinante,ricco di sorprese.

Abbiamo ricevuto un incarico: disegnare la mappa dell'intero territorio, suddividendolo in aree regioni province località, fissando i confini, determinando sovrapposizioni. Obiettivo è verificare se in Terra Gramsci regni un ordine segreto e sotterraneo (totalità) che si accompagni all'evidente anarchia nella quale vivono, tutto sommato serenamente, i cittadini (i frammenti).Chi è disposto ad aiutarci?

Ecco qua, Raul Mordenti, con il suo bel nuovo libro Gramsci e la rivoluzione necessaria (Editori Riuniti, pp. 206, euro 14). Ci spiega che siamo in presenza di un'Opera Mondo, anzi di un'Opera Vita, che pertanto va percorsa con lo spirito della "filologia vivente", come quella che anima o deve animare la visione di questa Terra con rispetto e fedeltà verso i singoli frammenti, intesi sempre come parti, grandi o piccole, a volte piccolissime di un vasto organismo; ci spiega inoltre, Raul, che la filologia vivente già pulsa nella circolarità o traducibilità reciproca tra dirigenti, quadri e base del partito politico cos? come lo ha rifondato idealmente Terra Gramsci. Il punto, continua Raul, è che organismo-parole e partito-democrazia sono totalità per natura aperte, illimitate, interminate e interminabili (strutture dialogiche, costantemente in cerca di nuovi interlocutori). Ma se è cos?, se questa terra è cos? frastagliata e complicata, non sarebbe allora meglio o più facile tagliare il nodo, buttare a mare la totalità e il partito, e immergersi in essa come in un postmoderno zibaldone fatto di sano caotico bricolage? No! dice Raul: se rinunciamo alla totalità, rinunciamo alla dialettica, se rinunciamo alla dialettica, rinunciamo alla rivoluzione e insomma… a Gramsci.
Sembrano due le anime - ma è una sola - dell'autore di questo libro: quella ancora hegeliana, che attribuisce la "paradossale attualità" di Gramsci, teorico della sconfitta (come già sottoline?, ai tempi della Thatcher, Stuart Hall) all'inattuale percorso di un pensatore comunista sino alle midolla, tutto intento a scavare dentro «la trama fondamentale del concetto di rivoluzione», appassionato del presente-futuro dell'umanità, ancor più che implacabile impietoso analizzatore del passato; e quella sottile e sofisticata del critico letterario comparato che sa leggere Gramsci in contrappunto con Valéry, Benjamin, Canetti, e ragiona sottilmente sulla distruzione-creazione che Gramsci-Mondo opera nei confronti della circolarità chiusa della vecchia en-ciclo-pedia, aprendo un terreno che, come il Gadda letto da Calvino, si presenta «come un garbuglio, o groviglio, o gomitolo».
La lettura del libro è scorrevole, in realtà ardua perché, anche in un capitolo puramente storiografico, come quello dedicato al Gramsci di Togliatti, l'unità delle due anime non appare cos? immediatamente. Qualcuno dirà: vedi che avevo ragione io a ritrovare in Raul un nostalgico del determinismo, se egli attribuisce alla dea-pubblicità la capacità di «rinviare il giorno della fine» di questo «ossessivo sovra-consumo improduttivo di massa» che è diventato il capitalismo. In realtà, nel gioco delle due anime c'è una base fertile per un'esegesi paziente del lavoro di Mordenti. Qui si voleva soprattutto ringraziarlo per il pregevole prezioso servizio arrecato agli inizi di quella che forse si presenta come la terza fase della fortuna di Gramsci: dopo la fortuna nazionale innescata dall'edizione togliattiana e quella internazionale in seguito all'edizione critica gerrataniana, la fortuna che oggi si presenta come regionale-nazionale-internazionale, avviata dalla pubblicazione del primo volume, non a caso di "traduzioni", dell'edizione nazionale degli Scritti di Gramsci.
Rivoluzione ed egemonia sono due fermenti organicamente combinati. «L'egemonia va costruita fin d'ora; essa non è affatto il "contrario" della rivoluzione ma è invece la condizione e la forma della rivoluzione in Occidente». Per illustrare e dimostrare questa tesi, Raul percorre un itinerario ampissimo, dal giovane Gramsci ordinovista fino alle interpretazioni recenti, in particolare quelle di Hall, Said e dei Cultural Studies. Che dire di questa tesi? La filologia, cos? giustamente cara a Mordenti, informa che - certo anche in conseguenza della censura carceraria - Gramsci non parla di rivoluzione in assoluto, senza aggiunte; parla piuttosto di «rivoluzione in permanenza», come espressione della vittoriosa guerra di movimento della borghesia, a partire dalla presa della Bastiglia, espressione da lui usata anche a proposito della conquista del potere da parte del proletariato in Russia, assimilabile alla guerra di movimento. Per intendere invece la nuova epoca "complessa" della guerra di posizione in Occidente, Gramsci conia la fondamentale categoria di "rivoluzione passiva", che vede nuovamente la borghesia al posto di comando. E il proletariato? Per esso la strategia è fondata sulla lotta egemonica.
Una teoria elaborata in primo luogo da Lenin che considera l'egemonia come una «forma attuale della dottrina […] della "rivoluzione permanente"». Il problema, centrale e delicatissimo, sta nel fatto che Lenin ha elaborato la teoria dell'egemonia in una situazione di guerra di movimento, mentre Gramsci la rivisita e la ripropone nella mutata temperie della guerra di posizione. Lenin stesso, ricorda Gramsci, aveva sottolineato come il movimento operaio internazionale non sia riuscito a "tradurre" nelle lingue europee la lingua della rivoluzione d'ottobre. Ci si chiede pertanto: l'"attualità" che Gramsci riconosce alla "rivoluzione permanente" vale, oltre che per l'ottobre sovietico, anche per la lotta egemonica in Occidente? Su questo punto è in atto una controversia tra alcuni studiosi, tutt'altro che secondaria o puramente nominalistica.
In carcere Gramsci attenua consapevolmente la fraseologia rivoluzionaria. Nel trascrivere un passo dal Quaderno 8 al Quaderno 10 passa dal concetto di "rivoluzione culturale" a quello di "riforma morale e intellettuale".
E allora? Un'ipotesi, recentemente avanzata da Giuseppe Prestipino, è che la mordentiana "necessità della rivoluzione" sia adeguatamente traducibile, in linguaggio gramsciano, con necessità della "riforma morale e intellettuale". Ci? significherebbe che dobbiamo rivedere per intero i concetti tradizionali di riforma e rivoluzione. Ma è proprio a questo tipo di coraggio e di ardimento che ci invita, con tutta la sua passione comunista, l'abilissimo pilota della preziosa automobilina filologica.

.[da «Liberazione», 19/07/2007]

http://www.gramscitalia.it/mordenti.htm

martedì 8 dicembre 2009

Said: qualche nota bibliografica

11568. Said, Edward W. Orientalism. New York: Pantheon Books, 1978 [Reprinted paperback New York: Vintage Books, 1979]. Pp. xiii, 369, ad nomen. [Eng.]

11569. Said, Edward W. «Reflections on Recent American "Left" Literary Criticism,» Boundary 2: A Journal of Postmodern Literature and Culture. [Binghamton, NY], 1 (Fall, 1979). VIII., 11-30. [Eng.]

[Reprinted in The Question of Textuality. Edited by William V. Spanos, Palu A. Bove and Daniel O'Hara. Bloomington: Indiana University Press, 1982, pp. 11-30.]

11571. Said, Edward W. «Opponents, Audiences, Constituencies, and Community,» Critical Inquiry, 1 (1982), 1-26. [Eng.]

11572. Said, Edward W. «American Intellectuals and Middle East Politicals: An Interview by Bruce Robbins,» Social Text, 19-20 (1988), 37-53. [Eng.]

11573. Said, Edward W. «Preface,» in Selected Subaltern Studies. Edited by R. Guha and Gayatri C. Spivak. Oxford: Oxford U.P., 1988, pp. v-x. [Eng.]

11574. Said, Edward W. «Gramsci e l'unità di filosofia, politica, economia [Interview],» in Modern Times: Gramsci e la critica dell'americanismo. A cura di Giorgio Baratta e Andrea Catone. Milan: Cooperativa Diffusioni '84, 1989, pp. 353-55. [Ital.]

[Taken from the interview done in connection with the movie «Gramsci l'ho visto così», by Giorgio Baratta and Gianni Amico, shown on Italian TV, on November 12, 1988.]

11575. Said, Edward W. Culture and Imperialism. New York: Knopf, 1993 [Reprinted in paperback New York: Vintage Books, 1994]. Pp. xxviii, 380, passim, cf. ad nomen. [Eng.]

11576. Said, Edward W. «Un'opera mondana,» L'Indice dei libri del mese, 2 (February, 1993), 43. [Ital.]

[Extract from an interview of Said by Buttigieg.]

11577. Said, Edward W. «Perché ho amato il "Gattopardo",» La Repubblica (January 26, 1996). [Ital.]

11578. Said, Edward W. Cultura e imperialismo: Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell'Occidente. «Prefazione» by Joseph A. Buttigieg, «Postfazione» by Giorgio Baratta. Rome: Gamberetti, 1998. Pp. xx, 421 (passim). [Ital.]

http://www.fondazionegramsci.org/A6Web/32S1.htm

Perché ho amato il "Gattopardo"

Repubblica — 26 gennaio 1996 pagina 35 sezione: CULTURA

Ho letto Giambattista Vico per la prima volta quando ero studente nel 1958 o 1959. Prima di tutto dovrei dire che quello che mi rese Vico tanto interessante fu che lo scoprii più o meno per caso e da solo. Era appena stata pubblicata una traduzione inglese della Nuova Scienza, ma a molti altri lettori di James Joyce, Jules Michelet, Samuel Beckett e Karl Marx il suo nome e alcune delle sue idee erano già noti. Fui sopraffatto dalla mia lettura di Vico... dall' audacia del suo pensiero, dall' eccentricità quasi medievale della sua espressione, dalla sorprendente capacità di discernere sia i particolari che i contorni della lingua, della storia umana e della società. Per me Vico rappresentò tutto quello che c' era di coraggioso nella vita intellettuale, e nonostante le sue idee apparentemente conformiste sulla provvidenza divina, venne anche a rappresentare nella mia mente e nel mio lavoro una vera fonte di speranza... speranza nel lavoro e nelle possibilità dell' uomo, speranza nel senso collettivo della storia umana che, disse, era fatta da uomini e donne, speranza infine nella capacità di cambiamento nella storia umana. La cosa principale che imparai da Vico fu che la mente (o "ingenium" come la chiamava nel suo italiano neo-latino) è allo stesso tempo una protagonista nella storia, e uno strumento essenzialmente immaginativo. Per cui lo studioso o l' intellettuale usano la mente per proiettare, ri-afferrare, ri-immaginare nel presente elementi delle loro origini (ciò che chiama "nascimento"). Inoltre è la mente che rende possibile "il mondo delle nazioni": Vico ammirava Lord Bacon ma anche venerava Omero, il razionale e il poetico, i due aspetti fondamentali della mente. Il secondo pensatore italiano a cui devo molto è Antonio Gramsci. Credo di essere stato uno dei primi in America a tenere conferenze su Gramsci, e, per almeno un decennio, fra gli anni Settanta e Ottanta, fu di frequente l' argomento dei miei seminari. Il mio libro Orientalism (Orientalismo) pubblicato nel 1978 fu un tentativo di applicare le idee di Gramsci sulla società e sulla storia alla visione occidentale dell' Oriente. C' erano due o tre cose straordinarie su Gramsci, e nonostante la natura frammentaria dei suoi scritti nei Quaderni rendesse difficile desumere da essi un qualsiasi sistema, la sua intelligenza intuitiva e pronta viaggiava attraverso la società e la cultura in modo notevomente istruttivo. Vidi Gramsci come critico di Hegel e delle teorie della trascendenza storica; Gramsci non vedeva il mondo solo in termini temporali, ma geografici e territoriali. La società per lui era il risultato di varie contese sovra-terrene, in cui l' egemonia e il potere avevano bisogno di essere compresi come aspetti di una vasta interazione civile fra partiti, masse sociali, storia e intelletto. In secondo luogo, Gramsci è naturalmente il primo analista del ventesimo secolo della società che ponga gli intellettuali al centro delle sue analisi. Gramsci riteneva che la categoria includesse quasi tutti in una società moderna, ma egli la rese anche più acuta per distinguere fra diversi tipi di intellettuali, il che comprendeva non solo la sua celebrata differenziazione fra intellettuali organici e tradizionali, ma anche la sua ugualmente formidabile analisi di Benedetto Croce. L' utile distinzione fatta fra idee "dirigenti" e "subalterne" e le formazioni sociali introdusse nell' analisi della cultura una comprensione molto sottile di come opera il potere, e, ancor più importante, di come gli si possa resistere e cambiarlo. Racchiuso in questa comprensione c' è un notevole senso etico che dà scopo morale alle lotte dei combattenti sociali e degli oppositori intellettuali. In terzo luogo ho trovato in Gramsci il modo di articolare l' influenza di una storia e di una geografia su un' altra. Nato a Gerusalemme da una famiglia araba, appartenevo a quel mondo, ma anche al mondo occidentale, e più precisamente al mondo americano dove ero emigrato da studente. Mi piacesse o no, mi trovai ad essere cittadino di più di una storia, cultura, tradizione e stato. L' ultimo esempio di influsso italiano è quello di Lampedusa, di cui lessi il grande romanzo, pubblicato postumo, come l' opera culminante di una tradizione italiana di pessimismo materialistico che ha origine con Lucrezio, passa attraverso Leopardi, ed emerge ne Il Gattopardo. Lampedusa rappresenta per me un esempio importante di qualcuno fuori del tempo, quello che chiamo vecchio stile, uno che arricchisce il proprio tempo senza essere parte di esso e di conseguenza è anomalo, anacronistico, difficile. Il Principe affronta la fine della sua vita e della sua classe con un rigido atteggiamento inesorabile, che non indulge né a se stesso né agli altri. Il suo razionalismo scientifico coesiste con un senso dell' ordine patriarcale, feudale: l' ambientazione siciliana del romanzo, che è quel vero Sud di cui Gramsci aveva parlato, viene visto sia invaso dal nuovo Nord, sia dall' interno, da una nuova classe di mercanti emergenti, i quali, entrambi, rappresentano un cambiamento che ironicamente mantiene le cose come sono. La severità della visione di Lampedusa è, secondo me, il risultato di chi si sente rassegnato ad essere all' incrocio di diverse correnti e culture. E' simultaneamente mediterraneo ed europeo, vecchio e scientificamente curioso, italiano e siciliano, aristocratico e fuori dalla sua classe. Rimane tuttavia intoccato da considerazioni di avanzamento o di potere: offertogli un posto nel nuovo Senato d' Italia, cortesemente rifiuta. Quello che non si trova in Lampedusa (o nel suo Principe) è la nostalgia per il passato, o una falsa speranza per il futuro. Quando il Principe muore, Lampedusa tratta la morte proprio come un fenomeno naturale, non si deve resistere né fuggire. - di EDWARD W. SAID


11577. Said, Edward W. «Perché ho amato il "Gattopardo",» La Repubblica (January 26, 1996). [Ital.]

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1996/01/26/perche-ho-amato-il-gattopardo.html

Il nostro Said

di Giorgio Baratta

Quando è giunta la notizia della scomparsa di Edward Said, ho pensato: è mancato un compagno, e poi ho pensato: il compagno di Gramsci.

Quindici anni fa ci sentivamo tutti compagni. Oggi questa espressione sembra diventata una pura etichetta di partito. Abbiamo rimosso quello slancio, certo eccessivo, ma siamo diventati più poveri.

Ritorno su quella associazione di pensiero. Credo contenga una verità forte.

Said non era marxista, né comunista. Ma la sua impresa intellettuale e politica è una lezione di comportamento comunista, e una metafora del comunismo nel passaggio da un secolo all’altro. Sotto questo riguardo la sua “fonte” è decisamente, se non unicamente Gramsci.

L’egemonia – ha detto di sé Said – è stata come una bussola per addentrarsi nel labirinto dell’orientalismo, più tardi per stabilire connessioni e intrecci tra cultura e imperialismo. Egli ha raccolto l’eredità di Gramsci, che aveva raccolto l’eredità di Marx nel passaggio da (quel) secolo all’altro.

C’è un eccesso nella sottolineatura di questi passaggi e in queste analogie? Può darsi. Oggi, in questa epoca ipermoderna ansiosa solo di “novità”, corriamo sempre il rischio di cadere in ingenuità e corti circuiti quando, come credo si debba fare, tentiamo di appropriarsi del “presente come storia”. Ma è proprio nella necessità di questo tentativo la forza del contrappunto tra Gramsci e Said.



Gramsci guardava al mondo grande e terribile dall’isolamento del carcere fascista. Said guardava al carcere sionista in cui è confinato il suo popolo dal libero cielo del vasto mondo. Credo che la coscienza del carcere fosse profondamente radicata nel pensiero di entrambi.

Entrambi erano e si sentivano profondamente isolati, in rotta con la dirigenza dei rispettivi movimenti. Il “pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà”, a entrambi così congeniale, era una modalità di azione e reazione rispetto alla sconfitta storicamente determinata della “causa” per la quale ognuno di loro viveva. Negli ultimissimi tempi di vita si è profilata per entrambi, sulla base delle circostanze oggettive, una sensazione terribile di impotenza, forse un lampo di disperazione.

Gramsci e Said credevano nella storia, senza teologismi o teleologismi, ma come terreno fondamentale di esercizio dello spirito critico. In questo Said andava contro corrente e per questo verso era decisamente antipostmoderno.

C’è una fiducia di fondo, al fondo del pensiero di entrambi, che si riflette nel modo in cui hanno guardato all’orizzonte della storia. Gramsci pensava che la crisi organica del capitalismo – il quale accanto a tanti disastri aveva tuttavia determinato un processo di unificazione del genere umano – non potesse avere altra soluzione, se una ne aveva, che il comunismo. Said sosteneva la necessità/possibilità di una “riconciliazione” tra i popoli di Palestina e di Israele, quale sostanza profonda e duratura di un reale processo di pace.

E’ ineludibile, riflettendo su entrambi, una sensazione di discrepanza tra sofferenza presente e aspettative storiche, forse anche tra pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà. Tanto più ammirevole, perciò, nella loro opera, la puntualità razionale e precisa delle considerazioni particolari, il carattere esplorativo e sperimentale delle analisi, sondaggi, proposte, la “filologia vivente” dell’approccio alla realtà dei fatti come dei testi.

Gramsci avvertiva in sé la presenza di uno “spiritello ironico” che gli consentiva una straordinaria capacità di vincere l’angoscia e la rassegnazione. “Una certa dose di scepsi e di ironia nei confronti di sé” è stato un elemento essenziale della personalità di Said, come egli ha detto in una intervista con Joseph Buttigieg.

Entrambi erano profondamente… brechtiani. Brecht, nel Piccolo organo per il teatro, ha scritto che “la modalità più leggera di esistenza è nell’arte” e che anche il suo fruitore è “produttivo” quando riesce a tradurre nella sua “leggerezza”, e attraverso di essa rivivere criticamente , “il terrore dell’incessante trasformazione” della realtà. Vien da pensare a Gramsci che legge Dante e a Said che legge Conrad o suona Beethoven.

Said ha scritto che Gramsci gli ha additato un modo di ragionare “mondano”, che forse si potrebbe tradurre liberamente con “laico”. C’è un altro elemento però in questa espressione, che accomuna i due pensatori: uno straordinario senso dello spazio, un sentirsi intellettualmente o emotivamente sempre in viaggio lungo i territori del pianeta, e tuttavia mantenere e coltivare una grande capacità di sostare, di stare, di dimorare, cioè di amare gli altri, siano individui, popoli o culture.

Ha scritto Gramsci che “il progresso reale della civiltà avviene per la collaborazione di tutti i popoli” (quaderno 11, 48).

Questa “collaborazione di tutti i popoli” – di pari dignità e autonomia ma oggettivamente associati in una identità planetaria - è l’idea-guida della storia mondiale nella prospettiva del comunismo.

Gramsci ha una certezza: che il mondo è diventato una grande, articolata e composita ma anche oggettivamente unificata “società di massa”. Non è certo stato né il primo né il solo a pensarlo o a saperlo. Egli ne ha dato una interpretazione rivoluzionaria. Il mondo è in bilico tra rivoluzione “attiva” e “passiva”. Il comunismo, privo di garanzie vuoi teleologiche, vuoi scientifiche, è però iscritto ben saldamente nella materialità del processo storico, di cui Gramsci persegue una concezione concreta, “filologica”, cioè ricca di elementi particolari ed empirici. Egli tiene ben ferma la centralità del conflitto di classe, e quindi dell’economia, ma ha coscienza della pluralità dei livelli sia economico-sociali che geopolitici e geoculturali dell’analisi.

Il comunismo di Gramsci può essere assimilato a una concezione radicale o rivoluzionaria di democrazia. Egli ha grande considerazione delle forme, ma aborre da ogni formalismo. La democrazia, come egli la pensa, deve essere una combinazione ben riuscita di elementi formali e sostanziali, di diritti e di dati di fatto. In entrambi i casi il difficile è la giusta considerazione della identità e insieme della diversità degli esseri umani, sia come individui che come gruppi sociali. Gramsci sostiene e adopera quella che si potrebbe definire una dialettica flessibile e assolutamente aperta. “Lo stesso raggio luminoso passando per prismi diversi dà rifrazione di luce diversa”… Occorre “trovare la reale identità sotto l’apparente differenziazione e contraddizione, e trovare la sostanziale diversità sotto l’apparente identità” (Quaderno 24, 3).

Non c’è identità nella diversità. C’è un rinviarsi reciproco – una traducibilità – dall’una all’altra, che però lascia affatto indeterminata la natura della loro relazione, il senso “ultimo” di questo nesso. L’unità è un’altalena tra l’uno e l’altro polo.





Per usare un’espressione cara a Franco Fortini, si dovrebbe dire che la storia ha costituito una “feroce smentita” dell’idea o ideale gramsciano della “collaborazione di tutti i popoli”. Sarebbe crudele dire - ma è una triste realtà - che i popoli nel Novecento hanno mostrato di saper collaborare soprattutto nel massacrarsi a vicenda. Che fare?

Una soluzione può essere quella di ragionare “a futura memoria”: analizzare e denunciare l’esistente e nello stesso tempo fare come se “la collaborazione di tutti i popoli”, nel senso civile e progressivo del termine, fosse possibile: un modo semplicistico e utopico di praticare il “pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà”.

Said ha tentato una strada diversa, che comporta la rinuncia – nel contesto della sconfitta epocale - a un senso forte di comunismo, ma che finisce per conservarne, anzi svilupparne e arricchirne l’istanza etico-politica, fondata sulla trasformazione rivoluzionaria del senso comune e su quella tensione di identità e diversità che caratterizza l'essenziale nel rapporto interumano.

Said si riferisce a Gramsci e rilancia questa tensione sostituendo però alla “traducibilità” gramsciana la sua idea di “contrappunto”. La “traduzione” o “traducibilità” ha come sfondo, come orizzonte, l’unità, in senso forte: “proletari di tutti i Paesi, unitevi!” Il “contrappunto” ha un orizzonte più sobrio e meno esaltante, ma probabilmente più concreto: l’umanesimo della convivenza, sul quale ha scritto ultimamente pagine di grande spessore nella nuova Prefazione a Orientalismo.

“Storie che si intrecciano, territori che si sovrappongono”: è il motto, o idea-guida del grande affresco di Cultura e imperialismo, che costruisce un discorso sostanzialmente privo di utopie ma ricco di profondi impulsi etico-politici derivanti dalla constatazione che la “collaborazione di tutti i popoli” prima ancora che un’idea politica, è un dato di fatto, espressione paradossale ma oggettiva della stessa politica imperiale che ha avvicinato, intrecciato, sovrapposto e quindi a suo modo costretto a cooperare popoli e culture differenti. È in questo orizzonte che va intesa e valutata la irriducibile battaglia intellettualmente e politicamente perseguita da Said per una soluzione binazionale della questione palestinese-israeliana.

Il “contrappunto” di Said implica due o più linee che si incontrano, “luci diverse”, se vogliamo, che però non sono in nessun caso riconducibili all’identità di un raggio che le preceda e ne sia quindi il presupposto. L’autonomia delle linee è radicale, perché senza di essa non ci potrebbe essere contrappunto. (Avviene qualcosa di analogo con un’altra celebre metafora musicale, che va nella stessa direzione del contrappunto di Said: la “polifonia” di cui parla Bachtin, ad es. nella sua intepretazione di Dostoevskji). Non ci sono un centro e tante periferie, ovvero quel centro c’è stato e c’è ancora: l’imperialismo, che sempre vede uno o più Paesi e organismi economico-sociali reggere le fila del mondo intero. Ma c’è, ci può, ci deve essere un centro dal punto di vista di una alternativa culturale e politica all’imperialismo? Ovvero l’alternativa è proprio l’abolizione, il superamento del fatto o della necessità di un “centro”?

Con questa domanda, che potrebbe mettere in modo un dibattito o una ricerca, diamo il nostro addio a Edward W. Said, che ci piace ricordare “sempre nel posto giusto”.

http://www.gramscitalia.it/saidbaratta.htm

domenica 6 dicembre 2009

Antropologia come critica culturale

Di George E. Marcus, Michael M. Fischer

Vedi da pagina 40

http://books.google.it/books?id=bni1GFNLJZsC&printsec=frontcover#v=onepage&q=&f=false

Gli intellettuali organici / di Antonio Gramsci

1) Ogni gruppo sociale, nascendo sul terreno originario di una funzione essenziale nel mondo della produzione economica, si crea insieme, organicamente, uno o piú ceti di intellettuali che gli dànno omogeneità e consapevolezza della propria funzione non solo nel campo economico, ma anche in quello sociale e politico: l’imprenditore capitalistico crea con sé il tecnico dell’industria, lo scienziato dell’economia politica, l’organizzazione di una nuova cultura, di un nuovo diritto, ecc. ecc. Occorre notare il fatto che l’imprenditore rappresenta una elaborazione sociale superiore, già caratterizzata da una certa capacità dirigente e tecnica (cioè intellettuale): egli deve avere una certa capacità tecnica, oltre che nella sfera circoscritta della sua attività e della sua iniziativa, anche in altre sfere, almeno in quelle piú vicine alla produzione economica ( deve essere un organizzatore di masse d’uomini; deve essere un organizzatore della "fiducia" dei risparmiatori nella sua azienda, dei compratori della sua merce ecc.).

Se non tutti gli imprenditori, almeno una élite di essi deve avere una capacità di organizzatore della società in generale, in tutto il suo complesso organismo di servizi, fino all’organismo statale, per la necessità di creare le condizioni piú favorevoli all’espansione della propria classe - o deve possedere per lo meno la capacità di scegliere i "commessi" (impiegati specializzati) cui affidare questa attività organizzatrice dei rapporti generali esterni all’azienda. Si può osservare che gli intellettuali "organici" che ogni nuova classe crea con se stessa ed elabora nel suo sviluppo progressivo, sono per lo piú "specializzazioni" di aspetti parziali dell’attività primitiva del tipo sociale nuovo che la nuova classe ha messo in luce.

[...]

2) Ma ogni gruppo sociale "essenziale" emergendo alla storia dalla precedente struttura economica e come espressione di un suo sviluppo (di questa struttura), ha trovato, almeno nella storia finora svoltasi, categorie intellettuali preesistenti e che anzi apparivano come rappresentanti una continuità storica ininterrotta anche dai piú complicati e radicali mutamenti delle forme sociali e politiche.

La piú tipica di queste categorie intellettuali è quella degli ecclesiastici, monopolizzatori per lungo tempo (per un’intera fase storica che anzi da questo monopolio è in parte caratterizzata) di alcuni servizi importanti: l’ideologia religiosa cioè la filosofia e la scienza dell’epoca, con la scuola, l’istruzione, la morale, la giustizia, la beneficenza, l’assistenza ecc. La categoria degli ecclesiastici può essere considerata la categoria intellettuale organicamente legata all’aristocrazia fondiaria: era equiparata giuridicamente all’aristocrazia, con cui divideva l’esercizio della proprietà feudale della terra e l’uso dei privilegi statali legati alla proprietà. Ma il monopolio delle superstrutture da parte degli ecclesiastici non è stato esercitato senza lotta e limitazioni, e quindi si è avuto il nascere, in varie forme (da ricercare e studiare concretamente), di altre categorie, favorite e ingrandite dal rafforzarsi del potere centrale del monarca, fino all’assolutismo. Cosí si viene formando l’aristocrazia della toga, con suoi propri privilegi, un ceto di amministratori, ecc.; scienziati, teorici, filosofi non ecclesiastici, ecc.

Siccome queste varie categorie di intellettuali tradizionali sentono con "spirito di corpo" la loro ininterrotta continuità storica e la loro "qualifica", cosí essi pongono se stessi come autonomi e indipendenti dal gruppo sociale dominante. Questa auto-posizione non è senza conseguenze nel campo ideologico e politico, conseguenze di vasta portata: tutta la filosofia idealista si può facilmente connettere con questa posizione assunta dal complesso sociale degli intellettuali e si può definire l’espressione di questa utopia sociale per cui gli intellettuali si credono "indipendenti", autonomi, rivestiti di caratteri loro propri, ecc.

A. Gramsci, La formazione degli intellettuali (Q. XXIX) - in: A. Gramsci, Gli intellettuali, Editori Riuniti, Roma, 1971, pagg. 13-16

http://www.girodivite.it/Gli-intellettuali-organici-di.html