venerdì 19 febbraio 2010

PONERE PUNCTUM CONTRA PUNCTUM

LA SFIDA DI EDWARD W. SAID AL REALE


Il pensiero che pensa della verità dell'essere è,
in quanto pensiero, storico.

(M. Heidegger)



È possibile riassumere il tentativo effettuato da Edward W. Said di ridefinizione del ruolo dell’intellettuale in una serie di principi (che vertono tutti intorno alla fondamentale area semantica dell’esilio) che tornano frequentemente, come un Leitmotiv, lungo tutta la produzione saggistica del critico palestinese e che spiegano esemplarmente la figura e i riferimenti filosofici del nuovo umanista da lui prefigurato. Esso incarna l’impossibilità di salvaguardare l’impegno (che, solo provvisoriamente, chiamerò politico) senza accordare un’importanza fondamentale all’individuo e al suo punto di vista che, però, deve proiettare il proprio sé verso l’esterno: l’altro, il lettore, l’ascoltatore. Il percorso scelto per questa breve nota considera (per quanto possibile) l’intera riflessione di Said sul rapporto tra gli intellettuali e la realtà, ma discute, in particolare, gli assunti sui quali sono state scritte opere come Joseph Conrad e la finzione autobiografica [1966] (Milano, il Saggiatore, 2008), Dire la verità. Gli intellettuali e il potere [1994] (Milano, Feltrinelli, 1995) – fondamentale per il tentativo di definire quasi sinotticamente la funzione dell’intellettuale –, Nel segno dell’esilio. Riflessioni letture e altri saggi [2000] (Milano, Feltrinelli, 2008) – che raccoglie scritti brevi pubblicati tra il 1967 e il 1998, oltre ad alcuni inediti – e Umanesimo e critica democratica. Cinque lezioni [2003] (Milano, il Saggiatore, 2007) – un vero e proprio testamento teorico che conferma e sistematizza quarant’anni di riflessioni.[1]

Non a caso, sin dalle prime opere, Said propone una forma del reale, definita contrappuntistica, che contesta apertamente la voce data, il cantus firmus, l’idea pienamente gestibile di oggettività. Nella sua riflessione sulle lettere e gli scritti brevi di Joseph Conrad ridiscute i limiti ontologici della realtà: a suo dire il realismo includerebbe anche gli scritti di chi, come l’autore di Cuore di tenebra, libera troppo di ciò che è oscuro o imponderabile. La realtà non è soltanto ciò che chiunque può abitare con facilità: non è invece, questa, − si chiede Said − la rassicurazione della realtà? La contrapposizione è, insomma, tra una forma contrappuntistica, polifonica, del reale e una sua economia, diversa dall’immagine di esso che ciascuno di noi si costruisce. Il ritorno del realismo, prospettato di recente da qualcuno (in Italia, in particolare, da Romano Luperini), sarebbe, in quest’ottica, una formula che tradisce una certa debolezza, anche perché, come sostiene più volte Said, non esiste più consenso riguardo alla realtà oggettiva: non si tratterebbe d’altro che della proiezione intellettuale di un rigido modello di frustrazione che, alla lunga e amara esperienza di realtà e illusioni, sostituisce l’impressione fissa e accettabile (fatta e finita) del reale. Tale economia della realtà non contempla le conseguenze umane dei problemi storici e neanche le pieghe più controverse di un genere letterario tutt’altro che risolto e utilizzabile una volta per tutte.

Quel reale privo delle intrusioni del passato − secondo il Said che nel 1966 pubblica Joseph Conrad e la finzione autobiografica, rielaborazione della sua tesi di laurea su Conrad soltanto adesso tradotto in italiano − non rappresenta altro che la parte afferrabile del presente: realtà oggettiva che, non stabilendo alcuna relazione causale tra il passato e il presente, somiglia a un vero e proprio incubo. E, invece, bisognerebbe cercare l’alterazione magica del reale, quella direzione potenziale (heideggerianamente fatta tanto di existentia quanto di essentia), ignota − ma, nella declinazione conradiana, familiare e irresistibile allo stesso tempo − che non può essere sbrigativamente negata da una verità acquisita: nel Compagno segreto di Conrad Said trova l’esemplificazione perfetta del duplice lavorio della mente che, tra ciò che viene effettivamente raccontato (conversazione) e la sostanza delle preoccupazioni di chi scrive (sottoconversazione), risale coscientemente a un diverso livello dell’uomo e della realtà: quello in cui l’esercizio dell’arte rende viva la verità con un po’ di finzione e dove l’incrollabile differenziazione intellettuale (fatta anche di autoriflessione) sfida costantemente le aspettative. Quando non si pensa, sostiene Conrad, sparisce tutto e rimane solo la verità, sostanza sub-razionale ben distante dalla verità dell’essere che − come un’ombra oscura, sinistra e priva d’immagine − rende l’uomo insensibile nei confronti di ciò che sta fuori dalla realtà: il genere umano non sarebbe in grado di sopportare una così grande quantità di realtà e si accontenterebbe, dunque, di uno stato parziale della verità nel quale ogni cosa scompare.

Insieme a una risoluta presa di posizione contro lo status quo, inizia così a profilarsi nell’argomentazione di Said quell’attenzione necessaria verso l’altro, intesa sia come considerazione della differenza sia come relazione vitale con la sfera pubblica, che diventerà presto argomento essenziale della sua riflessione teorica. E non bisogna omettere che aprirsi al mondo esterno per Said significa, senz’altro, trasmettere una sensibilità critica (intesa come diffidenza rispetto a quanto viene trasmesso dogmaticamente) che implichi anche la scelta di un linguaggio chiaro, trasparente, ben riferito alle cose e ironico e che, soprattutto, ponga le sue basi su una ricostruzione dettagliata e paziente delle parole, delle strutture retoriche, delle peculiarità psicologiche e di tutto ciò che inerisce alla natura storica e secolare dell’oggetto (o, se si preferisce, del testo o del personaggio) agito.

L’intellettuale profilato da Said, non assuefatto al nuovo né svincolato dal vecchio, marginale ma, allo stesso tempo, ricettivo, incline ad affermare la propria identità e, tuttavia, esposto alle tenebre del vero e utopicamente disposto a vedere nel presente tanto i rami morti del passato quanto i semi del futuro, trova nell’esilio una condizione metaforica ideale che restituisce in pieno quell’irrequietezza che gli consente di vedere le cose nella loro superficialità e di resistere, così, a esse. Quello dell’intellettuale – sentinella così come cura dell’essere – è un canto ambiguo (e, proprio per questo, sommamente riconoscibile) che fa di chi lo pratica un uomo libero, un essere umano e non − dice ancora Said − un essere sociale. Il mondo storico e le circostanze da cui nessuno può prescindere sono frutto di quella rappresentazione radicata in ciò che Said definisce mondanità: condizione (non necessariamente contrapposta alla spiritualità) all’interno della quale l’intellettuale si pone come sorvegliante, dentro e fuori rispetto alle idee e ai valori in circolazione. Egli fa del suo requisito di marginalità un fattore di imprevedibilità che lo rende sempre disponibile all’innovazione e alla sperimentazione e gli consente di superare quella linea d’ombra che da un ritmo e una dimensione personale consente di dedurre − senza esoteriche astrazioni − la struttura umana assoluta: permette di desumere l’universale concreto (la Cosa) dall’umile realtà della tenebra. Nondimeno tale passaggio deve fruire di una predisposizione all’indagine che poeticamente scardina, pezzo per pezzo, l’idea semplificata di identità e che è alla base di ciò che lo studioso palestinese chiama umanesimo: quella del nuovo umanista è una pratica in continuo movimento, forma critica (vale a dire, aperta, democratica e secolare) che spitzerianamente si fonda sul potere che la mente umana ha di indagare se stessa e che oppone una risoluta resistenza alle idées reçues, ai luoghi comuni e alle facili generalizzazioni. Si tratta di una sensibilità che, senza alcuna garanzia di riuscita, esegue il reale, trae da un particolare insignificante l’intreccio complessivo che, alla fine, restituisce il significato.

La marginalità dell’intellettuale di Said, pur opponendosi con risolutezza al consenso e all’ortodossia, non deve compiacersi della sua posizione d’autorità: deve disporre, invece, della capacità di collocarsi come memoria pubblica e, quindi, ricordare ciò che è stato rimosso e riprendere le voci isolate (quelle degli oppressi e degli svantaggiati) cercando di rapportarle a processi più ampi che prevedono l’inclusione, all’interno dell’orizzonte conoscitivo che si sta sondando, di ambiti da esso ben distanti. Deve rinunciare, quindi, a quell’atteggiamento professionale (ma più precisamente professionalistico) che, secondo Said, costituisce la vera minaccia che incombe sugli intellettuali di tutto il mondo: si tratta di una disposizione legata all’eccesso di specializzazione, nonché al ricorso sistematico e spesso inutile a linguaggi tecnici, lo si è detto, poco comprensibili, che inibisce l’entusiasmo e il gusto della scoperta. L’incarnazione di tali peculiarità è rintracciabile nella figura del dilettante: esso agisce non sulla spinta del guadagno o del riconoscimento, ma per perseguire (con amore e semplicità, dice Said) un disegno di più vasto respiro che trascende i limiti insiti nel mero esercizio di una professione. I riferimenti morali del dilettante sono costituiti, nella sintesi proposta in Dire la verità, dalla responsabilità e dalla passione e in nessun caso dal profitto e dall’angusta specializzazione. Il funzionario o il dipendente mirano all’oggettività e sono asserviti al potere politico e non possono disporre di una propensione intellettuale che implichi l’adesione concreta e individuale a un codice etico al quale l’outsider non può non far riferimento: proprio perché egli non si appella a una professione ed esercita la sua critica – tecnica di disturbo che è propriamente la forma di resistenza cui Said fa più volte riferimento – da questo spazio personale, precario e, nondimeno, al cospetto costante di quella dimensione mondana cui necessariamente appartiene, ma dalla quale costantemente si discosta mediante l’individuazione della sua particolare prospettiva che lo avvicina, finalmente alla casa dell’essere. Il vero intellettuale sa che la mansione più difficile consiste nel rifiutare ogni esercizio acritico di adesione a quelli che Said definisce i nuovi dèi della tarda modernità: potere e autorità intesi come istituzioni rigide e minacciose alle quali si può far fronte soltanto adottando una prospettiva laica, vale a dire etica, coerente e universalista.

La pratica oppositiva attuata dall’intellettuale, allo stesso modo dell’identità di ciascuno di noi, è stile di vita più che mezzo per vivere ed è costituita da un insieme di correnti che ne fa attività in movimento, compito da eseguire più che luogo stabile: energia che, attraverso la pratica della lettura e della rilettura, della vita e della ri-vita, lega le esigenze del passato alla rilevanza del presente (existentia, diceva Heidegger, come actualitas). È, dunque, un’energia (pratica umanistica che attiene tanto all’interpretazione di un testo o di un brano musicale quanto alla vita di tutti i giorni) che nasce dall’esame attento delle istanze della storia e che fa dell’intellettuale un individuo coraggioso, che rifiuta ogni compromesso e che, in tal senso, si pone sul versante opposto rispetto al politico. Questa attività di ricostruzione e interpretazione (e Said, pur facendo spesso riferimento al ruolo intellettuale di letterati e musicisti, adotta criteri di inclusione che implicano per qualsiasi umanista preparazione, impegno e pazienza) comporta un’affinata sensibilità per il particolare, per il dettaglio nel quale è compreso il significato dell’insieme e consente di riportare l’esistenza dell’uomo alla sua sostanza (non oggettiva ma storica). È soltanto così che si può risalire all’orchestrazione di un testo: nel modo in cui è possibile stabilirne le relazioni organiche con altri testi che ne decretano la complessità o, se si preferisce, il rapporto con la società o, detto in un altro modo ancora, la quota mondana.

Il nuovo umanesimo di Said, scienza nuova con un forte senso della storia, o vichiana sapienza poetica che desume la filosofia del reale partendo dalla fine ricognizione filologica, che sa tessere i saperi insieme, che afferma l’identità tutelando – punctum contra punctum – le differenze, all’interno di ciò che anche Calvino chiamava l’enchâssement del reale, agisce – si direbbe – su un piano linguistico che si pone come dimora recuperata dell’essere esiliato. Ritrovandosi nella parola (e, perciò, nella vicinanza all’essere) e nell’atto di dire la verità al potere, l’umanista formula un vero e proprio atto d’accusa nei confronti del politico, della disumanità, della deformazione che nasce dal professionismo, della soggettività esagerata e si pone quale visione plurima e polifonica (anche perché aperta, potenziale, utopica) di un mondo sempre alle prese con le tante chiacchiere sulla verità e sulla storia.

(Alessandro Gaudio)

http://www.lunarionuovo.it/?q=node/73

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